Silo rimane la serie da vedere per gli amanti della fantascienza: la recensione della seconda stagione
Con la sua seconda stagione Silo si conferma l’ennesima ottima serie di genere del catalogo Apple, perfetta per spettatori esigenti e attenti.
Silo è riuscita a sopravvivere al suo primo, grande colpo di scena, che chiudeva la prima stagione. Per la serie Apple TV+ raggiungere la superficie e mettere un punto fermo nella spirale di misteri che circondava il suo mondo distopico era una grande sfida, una prova superata in maniera brillante. Ora abbiamo un punto fermo, noi spettatori e la protagonista Juliette: là fuori il mondo non è guarito, l’aria è irrespirabile e l’umanità dovrà continuare a vivere sottoterra.
La seconda stagione deve giocoforza ripartire da qui e provare a rilanciare. Lo fa in maniera brillante, compiendo un paio di scelte coraggiose e difficili, considerando l’attuale scenario seriale e ciò che il pubblico dimostra di gradire. La seconda stagione di Silo infatti sin da subito è lontana mille miglia dall’esperienza media di visione a cui siamo abituati: veloce, accattivante, piena di stimoli, che richiama continuamente la nostra attenzione, spingendo al massimo sui registri del drammatico o del comico.
Due Silo, due storie, tantissimi nuovi misteri
Silo al contrario lascia che lo spettatore esplori la superficie con Juliette e poi conquisti, un faticosissimo passo alla volta, l’ingresso di quello che scopriamo essere un Silo gemello a quello che ha abbandonato. Un silo deserto, eccezion fatta per i cadaveri che ne ricoprono l’ingresso, che ovviamente pone tutta una serie di domande. Quel microcosmo unico che avevamo esplorato nella prima stagione diventa un alveare sotterraneo standardizzato. Quanti ce ne sono? Quanti sono ancora abitati dall’umanità? Cosa non ha funzionato nel Silo vicino?
Dopo averci dato un punto fermo, lo showrunner Graham Yost (Justified) torna a immergerci in un mondo fatto d’incertezze, in cui la verità è sfuggente, la cronistoria è più che frammentaria, ma incominciamo a intravedere uno schema ricorrente nonostante gli inganni di quanti hanno una visione più chiara della realtà.
L’attenzione dello show si sdoppia, dividendosi tra i due Silo che ora racconta: quello che la protagonista Rebecca Ferguson si trova ad esplorare e quello che ha lasciato, cambiato forse per sempre dal fatto che Juliette “è stata la prima in anni a camminare in linea retta per più di 100 metri”. Yost gestisce quest’alternanza in maniera encomiabile, non cedendo mai alla pressione di aumentare il ritmo, ma riuscendo quasi sempre a tenere la seconda stagione lontana dalla noia. La storia di Juliette diventa un po’ più prevedibile, a cavallo tra una trama alla The Martian (una persona molto preparata si trova in un ambiente deserto e deve mettere insieme la propria via di fuga assemblando oggetti e trasformandoli in soluzioni) e Passengers.
Prevedibilmente infatti, nonostante i suoni sinistri e qualche rimando horror, Juliette non è esattamente sola nel Silo disabitato. La fine della sua solitudine pone un'altra serie di domande e rende la sua situazione ancora più ambigua: non essere sola si rivela essere talvolta un aiuto formidabile ma spesso un problema pressante, una variabile pericolosa.
Silo fa spesso a meno della sua protagonista e fa bene
La parte che più funziona di questa seconda stagione però è quella ambientata nel Silo da cui Juliette se ne è andata, ora percorso da correnti di pensiero sotterranee pericolose. Come la stessa protagonista realizza durante la sua esplorazione, la mancata pulizia del monitor e la mancata morte del pulitore scatenano pericolose reazioni a catena. Siccome le società dei Silo sono costruite attorno a questa visione dal dentro del fuori, quanto qualcosa va storto, le certezze che tengono dentro le persone e uniti gli abitanti del Silo di sfaldano. Scopriamo cosa succede quando il piano dei fondatori fallisce, ma capiamo anche che chi ha ideato il Silo così com'è ha previsto una miriade di sistemi di controllo e gestione del rischio - alcuni molto ingiusti e crudeli - per evitare la sua distruzione.
Su questo fronte Silo prende la decisione più forte, dedicando una buona metà della stagione a uno sviluppo narrativo da cui la sua protagonista è completamente assente. Se abbiamo la ragionevole certezza che Juliette sopravviverà alle avversità che ha di fronte, in quanto protagonista, nel Silo senza di lei regna un equilibrio perfetto dal punto di vista narrativo. A partire dal sindaco Bernard (Tim Robbins) fino all’ultimo dei meccanici, Silo muove un gran numero di personaggi intelligenti, acuti, ognuno dei quali ha in mano solo un piccolo tassello della verità, la cui interpretazione tra l’altro è tutta da definire. Per lo spettatore è impossibile prevedere chi riuscirà a sopravvivere, come, per quanto.
Ognuno di loro tenta di influenzare il Silo in quella che pensa essere la giusta direzione, mentre loro e noi cominciamo a capire qual è il vero motivo per cui il Silo è così organizzato, perché le comunicazioni sono, di fatto, complesse e molto mediate, come mai la sua struttura sociale tende a creare un distacco tra chi sta in basso e chi sta in alto. Con la sottile consapevolezza che la storia sembra ripetersi al suo interno. Alcuni sono frustrati perché sembra sempre che il risultato sia a danno dei piani bassi, ma come spettatori siamo messi di fronte all’enigma morale dei supposti cattivi della serie, perché come a Juliette ci è stato mostrato esattamente a quale risultato può portare un tentativo efficace di conoscere la verità oltre la sottile coercizione politica e l’ingiustizia sistematica che regna nel Silo. Un messaggio che, in ogni presente politico, dà molto da riflettere.
A differenza di altre serie Apple TV+, Silo si prende ben 10 episodi da più di 40 minuti, allunga i ritmi, non cede alla pressione di iper-stimolare il suo pubblico per essere certo di tenerlo sul divano tutta la notte. Il fatto che esca un episodio a settimana in piattaforma ben si sposa con una serie che chiede al suo pubblico di essere attento, non ne sottovaluta le capacità deduttive e non utilizza mezzucci narrativi di bassa lega per tendergli trappole o ingannarlo.