Slow Horses è la miglior serie che non state guardando: la recensione della stagione 3
Non bastano nemmeno più gli aggettivi per elogiare una serie che, forte di un Gary Oldman e una Kristin Scott Thomas stellari, continua a scrivere una grande pagina di serialità.
Se non ci fosse di mezzo l’ingombrante successo critico di Scissione, Slow Horses potrebbe aggiudicarsi senza se e senza ma il titolo di miglior serie del catalogo di Apple TV+. Scissione stessa farà bene a dare il massimo nella sua seconda stagione, perché altrimenti la serie tratta dai romanzi di Mick Herron e adattata per piccolo schermo dallo sceneggiatore Will Smith farà traballare quella corona.
L’impressione è che, forte di un ciclo di romanzi di sostanza e dalla scrittura mai banale, la produzione inglese di Apple non si limiti a vivacchiare, ma, dopo due stagioni solide e un pubblico ormai fidelizzato, rilanci le sue ambizioni sempre più in alto. L’unico ostacolo a questa corsa è la volontà dei protagonisti Gary Oldman e Jack Lowden di continuare a interpretare le controparti Jackson Lamb e River Cartwright. Il primo sta rimandando la pensione proprio per questo progetto e sembra divertirsi un mondo nel ruolo della spia più scorretta, scorreggiona e lurida partorita dalla letteratura inglese. Il secondo invece, a leggere con attenzione interviste e dichiarazioni, teme già di rimanere intrappolato nel ruolo. A testimonianza di come, lontano dai riflettori e dal pubblico più ampio, questo serie stia cementando il suo immaginario nel gruppo nutrito ma non infinito di quanti la vedono.
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Alla luce di questa stagione, Slow Horses conferma e rilancia: se siete alla ricerca di una serie di assoluta e comprovata qualità, divertente e sempre imprevedibile, mai pesante ma sempre attualissima, mettetela in cima alla vostra lista di recuperi, perché difficilmente troverete di meglio sulla piazza.
Continua a leggere la recensione di Slow Horses - Stagione 3:
- Cosa succede nella terza stagione di Slow Horses
- Perché Slow Horses è una serie da vedere assolutamente
Cosa succede nella terza stagione di Slow Horses
Avevamo lasciato i ronzini di Jackson Lamb malconci ma sopravvissuti all’attacco frontale di un’unità dormiente di spie russe impiantata negli anni ‘90 alla fine della Guerra fredda. Stavolta i problemi e i nemici sono di casa: qualcuno infatti rapisce Catherine Standish (Saskia Reeves), ingranaggio fondamentale della Casa del Pantano, inviando a River una fotografia e una minaccia. Se non recupererà dagli spazi riservati del Park documenti riservatissimi sul primo ministro inglese, Catherine morirà.
Mentre River si lancia in una missione impossibile, Lamb cerca di capire chi stia muovendo le fila di quello che sembra un atto di sfida alla sua unità di reietti. La minaccia, stavolta, sembra provenire dall’interno dell’Intelligence inglese. Più d’una: mentre la squadra tenta di salvare Catherine, appare sempre più chiaro che il settore privato della security miri a un matrimonio forzato con MI5, corrodendone autorità e fondi, mentre la lotta tra prima e seconda scrivania, tra la gelida Ingrid Tearney (Sophie Okonedo) e l’arrivista Diana “Lady D” Taverner (Kristin Scott Thomas), rischia di travolgere anche il tranquillo pantano dove Lamb ha deciso di rifugiarsi.
Mentre ogni membro della squadra combatte ciò che lo ha portato al Pantano o che lo tiene ancorato lì, il gioco si fa ancora più pericoloso: nessuno sembra essere davvero al sicuro, mentre River si trova a fare i conti sia con perdite fulminanti sia con addii che è costretto a dare a poco a poco, altrettanto dolorosi.
Perché Slow Horses è una serie da vedere assolutamente
Tratta dal terzo romanzo della saga di Mick Herron “Le tigri sono in giro” (edito da Feltrinelli ), la terza stagione di Slow Horses è la più oscura e cinica della serie. Non è assente l’umorismo dolce amaro che circonda ogni reietto del Pantano, anzi: ora che i personaggi sono familiari allo spettatore, le dinamiche tra di loro sono finalmente più complesse e approfondite. Lo showrunner Will Smith gioca con l’aria di casa che ormai sentiamo quando ci troviamo al Pantano (calcio ben assestato per aprire la porta d’ingresso), inserendo riferimenti e sfumature ironiche. Il nuovo incontro tra River e la receptionist di Hyde Park è un esempio perfetto. Eppure quando c’è da picchiare duro e fare male, la serie non esita un secondo.
Ancora una volta conviene arrivare preparati alla visione, perché nessuno è davvero al sicuro da un colpo di scena mortale, com’era stato per Min nella passata stagione. Tuttavia le morti di Slow Horses, per quanto scioccanti siano, sembrano sempre il risultato di un realistico rovesciamento di destino, di una cattiva interpretazione delle proprie possibilità, piuttosto che un mezzo efficace ma meschino per tenere lo spettatore davanti alla televisione.
Herron e Smith qui lavorano alacremente per mettere le serie al riparo dal pericolo maggiore: il paradosso di vedere agenti sempre efficaci e leali rimanere al Pantano. La terza stagione di Slow Horses lavora molto per ricordarci quanto ciascuno dei sottoposti di Lamb sia danneggiato, corroso, efficace fino a un certo punto e un ronzino nel sangue. Il centro di questa narrazione è River, che continua a essere un agente di eccezionali capacità, cresciuto dal nonno per essere un eroe, ma che nella sua natura è sempre più fallace, difettoso.
La terza stagione si focalizza proprio su ciò che gli altri vedono ma lui no: ciò che lo fa costantemente fallire è il peso delle aspettative che la leggenda di suo nonno gli mette sulle spalle, l’ossessione del dimostrarsi migliore per riempire il vuoto lasciato dai tanti abbandoni vissuti (qualcosa che persino John Le Carré raccontava nel bel documentario Il tiro al piccione) e il fatto che lui, Lamb, Catherine non sono tagliati per MI5.
Non per quello che MI5 è oggi. Slow Horses ci racconta con distacco e una bella dosa di disgusto come il grande gioco dell’intelligence diventi sempre più piccolo a fronte di chi è più impegnato a garantire i propri investimenti (anche finanziari) della sicurezza del paese, senza farsi problemi a tradire i propri sottoposti pur di indebolire i propri nemici. Forse MI5 non è mai stato niente di differente, suggeriscono le evoluzioni del rapporto tra Lamb e Catherine.
Forse dunque River deve solo decidere chi essere: un Lamb meno corrosivo, una Catherine meno martire, un ronzino orgoglioso di esserlo. Nell’attesa di una risposta in questo senso, Slow Horses tira fuori dal cappello una grandissima stagione: grande scena ambiziosa d’apertura con protagonista Katherine Waterston direttamente da Animali fantastici, una regia, un montaggio e una fotografia perfetti, un Freddie Fox da applausi a scena aperta, che dopo questo exploit meriterebbe davvero che qualcuno gli affidasse un ruolo da primo piano.
Con la quarta stagione già pronta (alla fine dell’ultimo episodio vi aspetta il trailer con Hugo Weaving), non si può chiedere davvero di più a questa serie inglese stellare, se non di continuare così.
Rating: tutti
Nazione: Regno Unito
Voto
Redazione
Slow Horses
Meglio di quanto venuto prima e visto finora in Slow Horses, che si muoveva già su livelli stellari. L’unico difetto di questa serie, al momento, è che non tutti l’hanno ancora vista. Recuperatela il prima possibile.