Sugar, recensione: il detective cinefilo di Colin Farrell dà carattere a un noir bizzarro
Colin Farrell si conferma un attore di grande capacità e spessore: in Sugar finalmente smette i panni di personaggi caricaturali per regalarci un detective cinefilo e affascinante, alla Marlowe.
Il vero asso nella manica di Sugar è Colin Farrell, attore capacissimo e molto versatile, che ultimamente si è dedicato al cinema a una serie di ruoli da caratterista. Era da tempo che non lo vedevamo impegnato in un ruolo che puntasse anche sulla sua fisicità e il suo fascino. In Sugar il suo personaggio farà felici quanti non sono immuni al suo fascino: perfettamente sbarbato e pettinato, sempre impeccabilmente vestito con un completo nero, Farrell interpreta John Sugar, epitome del perfetto investigatore privato.
Cosa ci fa un erede di Philip Marlowe, l’iconico investigatore creato da Raymond Chandler, nella Los Angeles del 2024? Non è fuori posto? Sì e no, perché è proprio su questo contrasto tra stilemi del noir del passato e contraddizioni del mondo presente che si basa il fascino di Sugar, la serie Apple TV+ che fonde elementi noir e hardboiled in un presente in cui sembrano alieni. Il risultato è strano, bizzarro, spesso affascinante, una continua danza cadenzata con cui piede che tiene il tempo nelle radici del genere e l’altro che fa da perno, ben piantato nel presente.
Il noir rinasce all’ombra degli studios
Basta guardare l’apertura dell’episodio pilota: Sugar si muove in una Tokyo in bianco e nero, stilosa, ricca d’atmosfera. La sua specializzazione professionale lo porta a occuparsi solo di persone scomparse, solo per quajnti hanno il denaro e le connessioni necessarie a permettersi i servigi di un detective che vive in un residence di lusso e gira su una macchina d’epoca per le strade di LA. Uno probabilmente non proprio alla portata di tutto. Dopo esserci lasciati alle spalle l’Oriente e il bianco e nero, la serie entra nel vivo, catapultando il suo detective nel presente, nel colore, nella scomparsa al centro della serie.
Un potente produttore hollywoodiano assolda Sugar per ritrovare sua nipote. Il caso sembra banale: la ragazza ha un passato turbolento di droga ed eccessi, mitigati dal portare il cognome Siegel, influente famiglia legata agli studios, che le consente di avere un ottimo tenore di vita ma la costringe a navigare continui scandali legati al suo essere una persona nota per le sue connessioni familiari.
Nel corso degli 8 episodi che compongono la serie, Sugar dovrà sbrogliare una complessa matassa di poteri occulti, intrighi familiari e soprusi che si consumano all’ombra degli studios. I Siegel infatti si rivelano essere un impero multigenerazionale fondato su segreti oscuri. Mentre Sugar naviga le complesse dinamiche familiari di una dinastia fatta di matrimoni, amanti, scandali ed eredi non all’altezza del fondatore, lo spettatore indaga su Sugar. Il detective infatti è molto più di un ricercato investigatore privato con la passione della cinefilia.
Sugar è un detective gentile, salvato dal cinema
Sugar infatti non è solo ambientato nel mondo del cinema: viene contaminato costantemente dal dai classici di riferimento del genere, in un discorso duplice e ricco di contrasti. Da una parte c’è Sugar, che pur presentandosi come la reincarnazione di Humphrey Bogart è caratterialmente differente non solo da Marlowe, ma anche dai ruoli da detective che Farrell ha già affrontato in Miami Vice e True Detective. Sugar è un investigatore che aborre la violenza e dal suo turbolento passato non ricava un rapporto intimo con droghe e alcolici, né un cinismo esistenzialista che lo porta a muoversi in una zona griglia tra bene e male.
Sugar è gentile, altruista, ricco di compassione e attenzione per gli altri, anche quando le sue indagini lo portano nei bassifondi. Il suo passato che intuiamo tormentato l’ha portato, per reazione, a fare l’opposto di quanto ci aspetteremmo da un personaggio del genere. A salvarlo è stato (anche) il cinema, di cui è attento cultore: legge Cahiers du Cinéma, accetta di portare con sé una pistola solo perché è un oggetto di scena usato da John Wayne. Il cinema stesso gli fornisce più volte la chiave di lettura per dare una svolta alle indagini sui Siegel, punteggiando Sugar di riprese che citano passaggi cult di Psycho e Viale del tramonto.
Sugar indaga sulle radici oscure e profonde dei soprusi nel mondo del cinema
Sugar non è una serie che ama il cinema chiudendo gli occhi sui suoi difetti, anzi. Ama il cinema nonostante i suoi risultati più fulgidi siano spesso risultato di abusi di potere. All’amore per il nona arte che il creatore Mark Protosevich e il regista Fernando Meirelles condividono con il protagonista, è appaiato un ritratto a tinte fosche dell’industria cinematografica statunitense americana, del presente e del passato.
Sugar tira un filo rosso che parte da tematiche di grande attualità e, a differenza di altri prodotti filmici che hanno trattato gli stessi argomenti legandoli al presente, mostra come certi abusi siano intessuti lungo tutta la storia dello spettacolo statunitense. Chi ha il potere se lo tiene. Pubblicamente i salvatori del cinema sono mecenati illuminati che si tramandano la missione di continuare a produrre film, ma privatamente si passano di generazione in generazione anche i metodi non ortodossi con cui si mantiene il controllo delle carriere e dei corpi delle star che si è contribuito a lanciare.
Quando punta a questa narrazione appassionata ma non priva di vena critica sull’universo cinematografico Sugar mette a segno i suoi colpi migliori, guidato da un Colin Farrell che si conferma attore di grande solidità, capace di tracciare sfumature non da tutti, gestire personaggi che a partire da uno medesimo stereotipo (il detective tormentato) arrivano a risultati molto differenti.
Purtroppo però quando si avvicina alla risoluzione - del caso di scomparsa in casa Siegel e dei misteri legati al passato del protagonista - Sugar perde un po’ il contatto con la realtà. La fiducia dello spettatore traballa di fronte a svolte inverosimili, anche considerando il genere neonoir in cui stiamo muovendo le premesse più improntate allo stile che alla verosimiglianza su cui si muove la serie.