The Last of Us 2, recensione – Un capolavoro senza compromessi: emozionante, spietato, indimenticabile

The Last of Us 2 riparte da dove l’avevamo lasciata, dalla menzogna di un padre nei confronti di una figlia, una ragazzina di 14 anni che ha deciso di salvare a scapito dell’intera umanità. L’egoismo, l’esigenza di vivere una seconda chance, il rispondere ‘presente’ alla natura che gli chiede se vuole riprovarci a vivere un’anzianità da padre. Joel Miller (Pedro Pascal) ha fatto tutto questo, perché dopo aver salvato Ellie dall’intervento che le avrebbe asportato parte del cervello per provare a combattere e distruggere definitivamente il Cordyceps ha preferito uccidere tutti, in quell’ospedale, per salvarla. Ora toccherà rispondere di quelle azioni, delle conseguenze che quel gesto ha generato, nel più classico degli effetti farfalla. The Last of Us arriva con la sua seconda stagione dal 14 aprile su Sky e Now, un episodio alla settimana, in contemporanea con l’uscita americana, per 7 episodi, che ci condurranno a rivivere il capolavoro di Naughty Dog e di Neil Druckmann, qui alla scrittura – ancora – insieme a Craig Mazin.

The Last of Us 2, come Druckmann cambia la storia
Joel ed Ellie sono cambiati: da quella confessione, che fa da chiusura e apertura, sono trascorsi 5 anni. Lei non ha più 14 anni, ma 19: è una ragazza matura, adulta, consapevole delle brutture del mondo più di quanto non lo fosse già nella prima stagione. Ha perso parte di quell’umorismo che la caratterizzata all’inizio del viaggio e si appresta ad affrontare a muso duro le vicende che il mondo le presenterà. Joel, dal suo canto, ha raggiunto una nuova consapevolezza: le azioni delle quali si sono macchiate le sue mani lo conducono a doversi confrontare con eventi che non fanno più parte del macroscopico, ma del microscopico. La relazione con sé stesso è dilaniata da gesti ed efferate decisioni che adesso gli presentano il conto. Lo stesso rapporto tra i due protagonisti è mutato: ci sono ragioni molto più profonde di un’adolescenza da gestire da parte di Ellie e una crisi morale da ammaestrare da parte di Joel. Ragioni che emergeranno nel corso del racconto, con dei flashback che ci condurranno a riempire quei 5 anni di vuoto che la narrazione sembra volerci lasciare indietro in un primo momento, ma che ben presto verranno a bussare alla nostra porta sfondandola.
Al pari della prima stagione, in cui avevamo imparato ad apprezzare alcuni altri personaggi, anche nella seconda emergono comprimari e altri protagonisti che si prenderanno lo schermo e non solo il nostro affetto, ma in alcuni casi anche le nostre ire. Sarà il caso di Abby, personaggio ben noto a chi viene dall’esperienza videoludica e che farà il suo esordio sin dalle prime battute della narrazione, diventando il propellente di tutto ciò che muoverà i protagonisti in questo secondo arco narrativo. Sarà anche il caso di Tommy, però, il fratello di Joel, al quale Druckmann ha riservato un rimpasto che potrebbe essere tanto gradito quanto no: a noi spetta il compito di trovarne le motivazioni, dietro questa scelta, perché il personaggio di Gabriel Luna, rispetto alla sua controparte videoludica, è più compassato, più amministrativo. Sovrasta l’ordine naturale delle cose della città di Jackson, nel Wyoming, ma non cede all’ira e non si lascia accecare dagli eventi così come accadeva nel videogioco di Naughty Dog. Si tratta di una delle poche differenze che decide di mettere in piedi Druckmann in sede di scrittura, forse per riabilitare uno dei fratelli Miller e concedere alla famiglia un attimo di tregua, inseguendo una scelta apparentemente più cautelativa e rassicurante per lo spettatore e per il personaggio stesso. Ci sarà spazio anche per quello che è il passato dei due uomini di Austin, nel più classico coming of age americano.

L’occasione di far emergere la condizione sociale
In questo contesto si esalta anche un altro personaggio, ossia la cittadina di Jackson. Joel ed Ellie si sono rifugiati lì, ritrovando appunto Tommy, il fratello di Joel, insieme a sua moglie Maria e il figlio che ha permesso a Joel di diventare zio (uncle grumpy, come viene apostrofato spesso), dopo aver ottenuto una seconda chance come padre. Jackson diventa una parte fondamentale della narrazione, fino a quando non viene, in parte, soppiantata da Seattle, lo sfondo che nella seconda metà della stagione diventa preponderante. La prima iterazione ci aveva mostrato un lungo viaggio, un attraversamento intenso e pregno di fatiche degli Stati Uniti: una continua alternanza tra soste, combattimenti, esigenza di confrontarsi con un mondo dilaniato. La seconda stagione di The Last of Us, invece, vuole condurci in un mondo che sta provando a recuperare la propria naturale condizione. Un aspetto che permette a Druckmann e Mazin di compiere un’altra leggera variazione sul tema rispetto a quello che è l’evento scatenante di The Last of Us - Part 2: niente di così eclatante, ma che risponde meglio alla volontà di dare alla cittadina del Wyoming un peso all’interno del mondo. Gli stessi primi episodi, che rallentano e diluiscono – in maniera positiva – la condizione degli abitanti e la stessa introspezione sugli stessi, incedono sull’esigenza di mettere l’agglomerato cittadino e la sua amministrazione al centro della vicenda. Joel ha l’occasione di andare in terapia, di affrontare anche in questo caso i suoi fantasmi, così come Tommy e sua moglie Maria hanno l’occasione di emergere come leader politici.
Se su alcuni aspetti la produzione di The Last of Us ha l’occasione di rallentare e prendersi il suo tempo sul modo di snocciolare le vicende e gli snodi narrativi, su altri c’è la forte intenzione di replicare 1:1 quelle scene più forti, più iconiche. Ellie che suona la chitarra nel negozio di strumenti di Seattle è una di queste, ci viene riproposta in maniera identica, così come la scena del ballo con Dina nel primo episodio, momento che scatenerà la difesa a spada tratta di Joel. Su questo aspetto sottolineiamo una leggera e inattesa edulcorazione di quello che è il rapporto tra Ellie e Dina, almeno nelle prime fasi: forse più maturo e meno consapevole, ma di certo meno palese di quanto accadeva nel videogioco stesso. Si spera che la motivazione non sia figlia di una paura di un nuovo fenomeno di review bombing, perché sarebbe un’ammissione di sconfitta inadeguata. E infine, anche la scena che più ha sconvolto il videogioco nel 2020 viene replicata in maniera pedissequa, mutandone solo gli attori comprimari, ma in maniera sensata.
Il racconto diventa più intenso, così come era accaduto alla prima stagione, e tutte le parti di gameplay vengono asciugate, conducendoci a discorsi riflessivi, di introspezione. Così come per Joel, il dramma prende una dimensione più interiore, ma non sacrificare il disagio che l’umanità sta vivendo dopo l’avvento del Cordyceps. Anzi, c’è spazio anche per una sorta di riflessione videoludica, nella quale la progressione non è solo del protagonista, ma anche delle creature che circondano lo scenario nel quale ci troviamo. E a supporto di tutto questo c’è un’esaltazione estrema degli ambienti, una ricostruzione fedele al videogioco, ma che di per sé assume un valore unico: le distese innevate del Wyoming, Seattle divorata dai rampicanti e da una natura che sta sovrastando l’umanità, le paludi e la vegetazione nella quale Ellie, Dina e Isaac (interpretato dallo stesso attore che gli aveva dato le sembianze nel videogioco, Jeffrey Wright) si districano in una battaglia all’ultimo colpo creano uno scenario perfetto per rivivere l’emozione di The Last of Us. Che non è solo riproduzione del vidoegioco, ma capacità di declinare in un linguaggio e in un medium diverso una storia che merita di aver rivestito il ruolo di pietra miliare del videogioco.
L’ultimo di noi
The Last of Us ci accompagna a vivere l’ennesimo dramma del popolo americano, chiamato ancora una volta a fronteggiare una minaccia ben più grande di una pandemia o di creature mefitiche che hanno distrutto le loro vite: quella minaccia è il proprio simile, è l’uomo. Nel duello tra la fazione dei nostri e di quella di Abby, nella battaglia che si metterà in piedi, ci sono solo vinti. A vincere è il desiderio di vendetta, di rivalsa, di uccidere il prossimo. La violenza che Druckmann e Mazin mettono in scena non è fine a sé stessa, ma è un monito, vuole avvisare il prossimo che questa non è una soluzione, bensì un qualcosa che scatena una conseguenza, forse più di una. Ma ancor di più, a esaltarsi è il concetto riguardante la giustizia: non esiste nessuno che, in questo mondo, possa ritenersi retto e pio, perché persino il nostro più fidato e amato personaggio verrà presto ribaltato e visto con occhi ben diversi rispetto a quelli a cui eravamo abituati noi. The Last of Us ha questa grande capacità e continuerà ad averla, con la sua terza stagione, perché di materiale ce n’è ancora e Part 2 potremmo dire che è stata solo scalfita nella sua superficie: tra 2 anni, si spera, ci sarà modo di tornare a vivere i disastri che l’uomo ha generato su questo pianeta.
Rating: tutti
Nazione: USA
Voto
Redazione

The Last of Us
La violenza che Druckmann e Mazin mettono in scena non è fine a sé stessa, ma è un monito, vuole avvisare il prossimo che questa non è una soluzione, bensì un qualcosa che scatena una conseguenza, forse più di una. Ma ancor di più, a esaltarsi è il concetto riguardante la giustizia: non esiste nessuno che, in questo mondo, possa ritenersi retto e pio, perché persino il nostro più fidato e amato personaggio verrà presto ribaltato e visto con occhi ben diversi rispetto a quelli a cui eravamo abituati noi. The Last of Us ha questa grande capacità e continuerà ad averla, con la sua terza stagione, perché di materiale ce n’è ancora e Part 2 potremmo dire che è stata solo scalfita nella sua superficie: tra 2 anni, si spera, ci sarà modo di tornare a vivere i disastri che l’uomo ha generato su questo pianeta.