Benedict Cumberbatch “Come molti colleghi, sono attratto dai ruoli estremi e dolorosi” come quello di The Thing with Feathers
In The Thing with Feathers interpreta Papà, un vedovo con due figli da crescere che deve affrontare l’enorme perdita della moglie amatissima, senza risparmiarsi lacrime e dolore.

I personaggi preferiti di Benedict Cumberbatch sembrano essere quelli spogliati di ogni felicità o traccia di umanità e gettati in un viluppo di emozioni estreme; paura, violenza, rabbia. Dopo l’oscuro protagonista di Il potere del cane, dopo il padre che scivola nell’ossessione della serie Eric, Cumberbatch sceglie un altro padre alle prese con la disperazione: è il padre di The Thing with Feathers, adattamento filmico dell’intenso romanzo di Max Porter.
Cumberbatch il film lo interpreta e produce, aiutando così l’amico regista Dylan Southern a portare su schermo un progetto sentito e personale, che per lui diventa l’ennesimo confronto con un personaggio estremo.

Nel film viene affrontato il tema del lutto in modo molto poetico e sfumato. È questo tema del romanzo da cui è tratto The Thing with Feathers ad averti attratto?
Dylan Southern - Assolutamente. Quando ho letto il romanzo mi aveva già colpito il modo in cui trattava il lutto con tanta delicatezza e profondità. E un tema molto affrontato in letteratura, ma non mi era mai capitato di imbattermi in una narrazione così intensa su questo tema, che rifiutasse quell’approccio da autoaiuto e riflettesse sulle sfumature progressive tra la versione sana dell’elaborazione del dolore - il lutto - e quella malata, la disperazione. Ho reagito da subito al libro di Max Porter perché toccava una corda molto personale. Ho perso alcune persone care quando ero molto giovane e all’epoca non avevo gli strumenti per elaborare quello che stava succedendo. Un romanzo, un film così mi avrebbero aiutato.
Il romanzo di Max Porter non sembra un materiale semplice da portare su grande schermo, visto che intreccia molti punti di vista diversi. Com’è stato lavorarci?
Dylan Southern -È stato un processo intenso, che è partito come ben sottolinei dal rendere più semplice organico un racconto che si muove in tante direzioni. C’è stato tanto lavoro anche sulla dimensione visiva, che doveva suggerire uno stato d’animo che nel romanzo viene raccontato con le descrizioni.
Abbiamo lavorato moltissimo sugli spazi della casa dove Papà e i suoi due figli vivono ora senza la madre, trasformandoli gradualmente per renderli sempre più claustrofobici. Anche il formato delle riprese cambia nel corso del film, spesso passiamo al 4:3, proprio per accompagnare questo senso di chiusura progressiva al mondo, di ripiegamento sul proprio dolore personale. L’idea era che il film non dovesse addolcire la memoria, ma conquistarla, rendendola visibile nei suoi processi.
Nel film il lutto viene mostrato anche come un processo che porta alla speranza. È per questo che rispetto al titolo del romanzo The Grief is the Thing with Feathers avete tolto il riferimento iniziale al lutto rimanendo con il solo The Thing with Feathers?
Dylan Southern - Il titolo del romanzo rielabora quello di una famosa poesia di Emily Dickinson, sostituendo la speranza con il lutto. Noi abbiamo preferito non definire la nostra “cosa piumata” perché è un’incarnazione del lutto, certo, ma ha in sé una componente di speranza e una stretta relazione con il demone della disperazione. La disperazione è definita dall’assenza della speranza, è solo dolore senza fine.
Benedict Cumberbatch - L’attenzione è fondamentale: è il primo passo verso la devozione in ogni relazione, percià è l’opposto della disperazione. Anche una semplice passeggiata, quando si sta male, è un atto di attenzione verso se stessi. L’arte ha il potere di catturare questa attenzione e aiutarci a prenderci cura di noi.
Una degli aspetti più interessanti del film è il modo in cui alterna conscio e subconscio.
Dylan Southern - È raro trovare film che riescano a farlo in maniera così naturale, a scivolare da un racconto quotidiano totalmente realistico a una dimensione in cui si può manifestare un personaggio come il Corvo.
È il punto del film, che crea questa creatura sovrannaturale per rendere tangibile come il lutto arrivi all’improvviso, spesso mentre stai facendo qualcosa di ordinario, dapprima sembra un mostro, poi è consolatore, poi ti fustiga, ma ti spinge sempre in avanti. Il film cattura bene questa imprevedibilità nell’evoluzione del lutto.
Benedict Cumberbatch - Un altro degli aspetti che il film cattura sono le emozioni che Papà cerca di non far salire a galla, ma che vediamo chiaramente. C’è per esempio tanta rabbia, anche verso i figli, ma è una rabbia che in realtà è solo un altro volto del dolore. Il protagonista cerca di trattenersi perché sa che i bambini sono incolpevoli e anzi soffrono anche loro, ma capita che non ce la faccia. Anzi, quando perde il controllo e chiede perdono, quando chiama un parente perché capisce di non poter gestire tutto da solo, è il momento in cui cambia tutto, in positivo. Perché finalmente ammette apertamente di sentire la mancanza di sua moglie di fronte ai piccoli, agli atri.
Il personaggio di Papà fa molta fatica anche perché di carattere è molto poco verbale, taciturno, di poche parole. Il che è interessante, perché io palesemente, da quanto ci ho messo a rispondere a questa domanda, sono proprio l’opposto! (ride)

Proprio nel mostrare come Papà affronti il lutto esplora anche l’idea di mascolinità in un modo non convenzionale.
Benedict Cumberbatch - Sì, ed è una delle cose di cui sono più contento. The Thing with Feathers fa parte di una serie di film contemporanei che non impongono un’idea predefinita di cosa sia o dovrebbe essere la mascolinità, anzi, va nella direzione opposta.
Affronta con grande pragmatismo e realismo quanto sia complicato per un uomo abituato a contare sulla propria compagna dover affrontare la crescita dei figli e la gestione della casa da solo. Non solo: non ha paura di mostrarne la sofferenza, la debolezza in maniera che qualche anno fa sarebbe stata considerata…poco maschile.
Immagino lo chiedano in molti, ma come ci si mette volontariamente nella situazione di dover provare, seppure per finta, sentimenti così dolorosi?
Benedict Cumberbatch - Il primo passo è che devi arrivarci, a quella vulnerabilità che è l’anticamera del dolore, e non è scontato. Non è sempre facile sentirsi vulnerabili quando hai accanto un pupazzone animatronico alto quasi due metri o quando devi immaginare il cadavere della donna amata che stai piangendo per terra davanti a te con solo quattro pezzi di nastro adesivo nero sul pavimento.
Il difficile non è solo l’interpretazione, ma entrare in quello stato emotivo in maniera credibile. Per questo è fondamentale essere guidati da qualcuno di cui ti fidi. Dylan Southern era un mio caro amico già prima di questo progetto, e avere una persona così fidata accanto in quei momenti in cui devi giocoforza esporti ha fatto la differenza. È una sfida che amo affrontare, perché amo questo lavoro.
Nel film Papà si deve prendere cura di due bambini molto piccoli, rivedendo il suo rapporto con loro ora è che l’unico genitore rimasto. I due piccoli al tuo fianco nel film sono davvero bravi. Come si lavora con due bambini a un film con delle tematiche così dolorose?
Benedict Cumberbatch - Lavorare con bambini è sempre speciale ma molto impegnativo. Per loro è tutto nuovo, non sono attori all’inizio del progetto, ma lo diventano nel corso delle riprese. Qui ho avuto la fortuna di lavorare con giovanissimi straordinari, che hanno portato freschezza e autenticità. È sempre particolare vedere qualcosa a cui sei abituato, che dai per scontato, attraverso gli occhi di chi lo scopre per la prima volta. Detto questo, è anche una sfida. Il set di un film non è pensato per persone di quell’età, e a volte può essere molto impegnativo sia per i piccoli sia per gli adulti.
Sei spesso attratto da personaggi estremi, pieni di conflitti interiori.
Benedict Cumberbatch - È vero. Gli attori sono spesso attratti dagli estremi del trauma umano, dalle emozioni più complesse. Io amo i personaggi difficili perché c’è una sorta di caccia ai loro ultimi brandelli d’umanità, o al contrario finisci per indagare le ragioni per cui l’hanno persa. Cerco comunque di variare i ruoli, anche se ci sono tematiche che mi attraggono più di altre. Mi piace “scuotere la palla di neve”, cambiare prospettiva, a ogni film.
Ti capita mai di sentire che un’interpretazione non sia completa?
Benedict Cumberbatch - Sempre! Ma fa parte del lavoro. Non puoi mai raggiungere la perfezione, e accettarlo è fondamentale. Anche per questo amo fare il produttore: mi circondo di persone affascinanti e mi piace dar loro spazio per esprimersi e questo fa sentire l’esperienza in maniera più completa e compiuta anche a me.