Bohemian Rhapsody
Questo Freddie Mercury piace a chi ama le invenzioni, a tutti gli altri resterà sui denti
Le continue smorfie che fa Rami Malek (pur molto bravo) nel gestire la grande protesi che porta sui denti per impersonare Freddie Mercury sono l'immagine perfetta del fastidio che è destinato a generare in molti Bohemian Rhapsody. Il che non scalfisce minimamente il successo di questo film sofferto, controverso e un po' pasticciato. Vola negli incassi al botteghino ed è il secondo biopic più visto di sempre, un passo dietro a quello sui N.W.A e il gangsta rap, e uno davanti alla bio cinematografica di Johnny Cash.
E' una sorta di collage di videoclip ricreati e cuciti tra loro, a rendere ulteriormente "eroica" una figura già amatissima dal grande pubblico. Un pubblico che rivuole Freddie a casa (non Freddy, come scrivono e pensano molti sedicenti fan dei Queen). E la casa di Freddie Mercury è sempre stata il palco, meglio se enorme e con folla oceanica di fronte. Sul fronte emozionale, Bohemian Rhapsody funziona benissimo, su quello della coerenza e della correttezza storica ha più buchi del gruviera. Però: Let me entertain you recita un famoso brano dei Queen. Mercury si è spesso definito così: un intrattenitore. E se è intrattenimento e lacrime che lo spettatore cerca al cinema, con questo film ne trova a tonnellate. Il che non risolve i problemi.
Un film con i cerotti addosso
Ricapitoliamo in breve per capire quanti lividi e cicatrici si porti addosso questo film sul mito di Freddie Mercury. Non necessariamente su Freddie e i Queen. Ad Hollywood cominciarono a pensare di realizzarlo otto anni fa, anche su input di Jim "Miami" Beach, collaboratore strettissimo della band inglese. Graham King fece suo il progetto come produttore, Brian May e Roger Taylor accettarono di lavorarvi come consulenti musicali (chi meglio di loro) e in breve tempo Bryan Singer (I soliti sospetti, Superman) e Sacha "Borat" Baron Cohen diventarono regista e protagonista principale. Contando sulla sceneggiatura di un fuoriclasse come Anthony McCarten (La teoria del tutto).
Col tempo il dream team ha avuto problemi: quelli di cattiva condotta professionale e di denunce per molestie sessuali che hanno portato all'estromissione di Singer (non è la prima volta, magari scoppierà un caso Weinstein versione gay, in questa Hollywood sovraeccitata dal #metoo tutto è possibile) e quelli di adesione al progetto di Baron Cohen, che si è tirato fuori quando ha capito che i lati più oscuri e controversi di Mercury (quelli che hanno a che fare con la sessualità scatenata e le frequentazioni nei club di scambismo polisessuale e sadomaso) sarebbero stati purgati dalla storia. Per renderla quella che è.
Una rockstar-santino
Niente viaggio negli eccessi di Mercury, dunque, niente oscurità della sua "perdizione" sessuale (fu lui stesso a dire all'entourage con cui lavorava "adoro fot...mi la vita" ed è stato Peter Freestone, suo assistente-ombra a raccontare come una volta Freddie salì sul palco avendo sulla mano il segno del morso del suo compagno Bill Reid). Nemmeno il racconto lieve e festoso di come Mercury vivesse la dimensione del sesso e dei party selvaggi, e di come questo desse ulteriore carica al suo modo di scrivere musica e testi. Bohemian Rhapsody corre velocissimo fino alla realizzazione di A Night At The Opera, che è stato effettivamente il punto di non ritorno della loro carriera.
E sorvola sugli inizi difficoltosi, e su come nonostante il buon riscontro di vendite di Sheer Heart Attack (il disco precedente, con le hit Now I'm Here e Killer Queen) sul fronte finanziario la band fosse nei guai. Lo confermò lo stesso Roger Taylor: "Cominciammo a lavorare a A Night At The Opera con pochissimi soldi in tasca, eravamo praticamente falliti". Anche per la cattiva gestione del management che provocò scontri e avvicendamenti. Ma al regista Dexter Fletcher (che non ha affatto la mano e il controllo della materia che avrebbe garantito il licenziato Singer) la coerenza storica e la cura dei dettagli non interessano affatto. Bohemian Rhapsody deve stordire ed entusiasmare, proprio come fece il brano da sei minuti e rotti nel 1975, sfidando produttori e programmisti radiofonici e diventando un caso nella storia della musica rock. Con grande successo.
Per tutto il resto abbiamo i documentari
Come scrivevamo in apertura, l'enorme protesi dentaria che Rami Malek deve sopportare per tutto il film, a ricordare la particolarità di Mercury e dei suoi quattro incisivi supplementari, è il simbolo del film. Esagerato fino alla macchietta quando non deve e troppo "normale" quando dovrebbe osare. Ad esempio nel rapporto tra Farrokh (così si chiamava Mercury, di sangue parsi) e la famiglia, l'ambiente delle periferie britanniche del tempo e il ribollire di violenza e vizio incanalati in quella musica da cui nacquero e da cui uscirono velocemente i Queen: il glam rock. Di quella scena non viene detto nulla, e nemmeno di come perfino gli ascoltatori più aperti vedessero con sospetto il quartetto formato da quattro musicisti di straordinaria bravura.
Le date vengono stravolte e mescolate senza ritegno: ai tempi degli Smile, Mercury non si presentò ai futuri Queen subito dopo l'abbandono del precedente cantante, conosceva la band da tempo. Fu il gruppo a chiedergli di entrare come nuova voce. Deacon, al contrario di quanto mostrato sul grande schermo, non era nella formazione fin dagli esordi. Mary Austin, moglie e compagna etero di Freddie, lo conobbe tempo dopo e non insieme agli altri Queen. Stupisce che May, Deacon e Taylor, pur parte importante nella realizzazione del film, riducano così tanto il loro ruolo. Freddie era estroso e genialoide, ma Brian è sempre stato un dottore musicale, Roger era capacissimo di tirare un cazzotto a chi lo metteva in secondo piano e Deacon non è affatto un miracolato del basso. Stupisce pure come gli sceneggiatori, con il loro beneplacito, abbiano puntato sull'omosessualità del cantante come detonatore dei suoi rapporti con la band.
In realtà, dopo anni di successi milionari, prima il cantante poi gli altri del gruppo si dedicarono alle loro imprese personali. I Queen non seppero che Freddie aveva l'Aids a qualche giorno da una inesistente (nella realtà) riunione per il Live Aid, ma anni dopo. E ancora: Another One Bites The Dust è cronologicamente successiva a We Will Rock You così come Fat Bottomed Girls arrivò dopo Bohemian Rhapsody, al contrario di ciò che mostra il film. Andiamo avanti? Forse non serve. Bohemian Rhapsody funziona come puro spettacolo di santificazione di Freddie Mercury, del suo ritorno in scena per chi ha una nostalgia invincibile di lui. E per chi, come l'inesistente (nella realtà) produttore interpretato da Mike Myers, vuole "canzoni che i teenager ascoltano a tutto volume in auto scuotendo la testa", con bella citazione da Fusi di testa. Agli altri questo Freddie resterà sui denti posticci e invadenti. Per tutto il resto, su lui e i Queen ci sono documentari filologicamente perfetti.