Cosa si prova a salire sul palco di Wembley, da regista: intervista a Toby L., regista di Blur to the end
Il regista di Blur: To the End racconta come è stato, da fan e da documentarista, seguire la reunion della band fino al palco di Wembley.
Salire sul palco di Wembley insieme a una band icona degli anni ‘90 che per la prima volta conquista lo stadio simbolo della musica inglese. Tornare alla scuola dove due dei suoi membri hanno ammazzato interi pomeriggi nell’aula di musica che ora porta il loro nome. Essere presenti al primo ascolto dell’EP inedito che segna la loro reunion dopo anni di silenzio, distanza, con il cantante e frontman che si commuove.

Possiamo dire di esserci stati perché c’era lui Toby L, veterano del documentario musicale e grande fan dei blur, a registrare queste scene per noi. Un lavoro lungo di riprese, sei mesi al fianco di una band che ritrova i suoi legami dopo anni di silenzio e poi altri nove, a fare ordine tra il girato, fino a tirare fuori un documentario che parla di mortalità e amicizia.
Una lente non così inconsueta nel mondo dei documentari musicali oggi, ma di solito riservata a icone della musica di qualche generazione più anziane del gruppo brit pop degli anni ‘90. Ho chiesto a Toby L. di spiegarmi perché ha voluto raccontare la reunione del 2023 dei blur attraverso questa lente.
L’aspetto che più mi ha stupito di questo doc sono i suoi temi. I blur per la gran parte hanno appena superato a cinquantina, quindi ci sta parlare dell’età che avanza, ma il doc sembra quasi un memento mori immerso nello humor inglese. E in un’amicizia che, dopo anni di distanza, ritrova il suo passo.
Ci hai preso in pieno, quelli sono proprio i tre temi che volevo affrontare in questo documentario, quelli che avevo in mente quando stavo girando: la mortalità, l’invecchiare e l’amicizia tra i membri di una band che ha scritto la storia musicale inglese degli anni ‘90. Ho deciso di raccontarli in quest’ottica perché ritrovandosi per la reunion, giocoforza si sono trovati a interrogarsi sul loro passato, a fare dei bilanci, no?
D’altronde era necessario avere un tema, una linea guida: lo dico per esperienza. Se cominci un documentario come questo e non hai un focus preciso, quando poi arrivi al montaggio con le tue centinaia di ore di girato da ridurre in poco meno di 120 minuti il lavoro diventa un incubo vero. Avere delle tematiche precise riduce già di moltissimo il lavoro di selezione che va fatto, che di per sé è davvero moltissimo. Il momento difficile non è girare un documentario, ma montarlo, tirandolo fuori da tutto quello che hai vissuto insieme ai soggetti della pellicola, alle vole scartando momenti strepitosi ma che non aggiungono nulla alla narrazione che hai deciso di fare.
Avere dei temi ben precisi in mente ti permette di essere immediatamente più selettivo e concentrato, ti forza a fare delle scelte a monte che ti aiutano a montare un film in tempi ragionevoli. Conta che per questo doc ci è voluto quasi un anno: il tempo per montarlo è stato di tre mesi più lungo di quello necessario a registrarlo.

Vedere Damon commuoversi, sentire le battute che si fanno tra di loro, assistere alle reciproche incomprensioni…ne esce un ritratto un po’ distante dalla band che raccontavano i rotocalchi negli anni ‘90, quella famosa per rendere la vita impossibile agli intervistatori.
Essendo stato un fan prima e poi avendo avuto già modo di lavorare con loro su altri progetti io sapevo già che i Blur sono innanzitutto delle persone molto, molto divertenti. Sono pieni di spirito, hanno sempre la battuta pronta. Credo traspaia molto anche dalla loro musica di metà anni ’90, questo loro modo di essere. Una delle prime cose che ho detto loro quando ci siamo seduti attorno a un tavolo per discutere di questo progetto e di come sarebbe stato questo documentario, è che volevo fosse divertente. “Voi ragazzi siete divertenti e questo progetto dovrebbe rispecchiarvi”. Loro erano sostanzialmente d’accordo.
I loro rapporti con la stampa in quegli anni non sono stati il massimo anche perché sentivano che in qualche modo i giornalisti con le loro domande volevano dare un ritratto della band in cui i membri si facevano la guerra, o magari cercano di farli irritare, in modo da avere un titolo ad effetto. Io volevo invece che fosse un ritratto emozionale e divertente, appunto, di cosa significhi davvero stare in una band, perché è garantito che prima o poi qualcosa andrà storto ed è interessante vedere come i membri reagiscono quando sono esausti, hanno provato per ore e magari qualcosa si rompe. Il punto è che con i Blur spesso il problema si risolve con una battuta. Come in una delle mie scene preferite del doc.
Quale?
Quella in cui Damon and Graham tornano nella loro scuola. La trovo divertente e anche commovente, no? Loro non tornavano lì da quando erano ragazzi e all’improvviso è un salto nel tempo, tornano a comportarsi come dei monelli dispettosi, ed è immediatamente chiaro come devono essere stati da giovani studenti. Ho pensato fosse un’idea fantastica riportarti in quel contesto, vedere come avrebbero risposto in quell’ambiente. Era un mio piccolo esperimento e ha funzionato, si sono immediatamente ristabilite le dinamiche professore/studenti. Spero che le persone che vedranno il documentario percepiscano queste sfumature e abbiano una comprensione maggiore del carattere giocoso del membri della band.

Sei la seconda persona che non si occupa di musica direttamente che mi capita d’intervistare quest’anno che sia salita sul palco di Wembley per un documentario. Chiedo perciò anche a te cosa si prova? I blur nel doc sembrano parecchio sotto pressione…
Sì, mi sono decisamente sentito sotto pressione anche io. Ironicamente la loro esperienza di ripartire con un tour con alcune date in posti molto accoglienti e di piccole dimensioni e poi arrivare in uno stadio così grande e iconico riflette esattamente la mia che li ho seguiti on the road per girare questo documentario.
Ti dò qualche numero darti l’idea di come le cose siano cambiate nel giro di una notte. Prima del soundcheck di Wembley eravamo in pochissimi: io come regista, il direttore della fotografia, la persona che si occupava del suono, la nostra producer Katy e il mio partner nella compagnia di produzione. Cinque o sei persone in tutto. Il giorno dopo, a Wembley, avevano 20 persone solo per occuparsi delle varie cineprese e una troupe di 110 persone. Per me è stato molto stressante, in un certo senso ho avuto sul mio versante la versione di quello che hanno provato i blur no?
La pressione e l’opportunità di quel momento non me le scorderò mai. Sarà sempre uno dei momenti più memorabili della mia carriera e della mia vita la camminata dal camerino al palco di Wembley, dietro una singola cinepresa, al fianco dei blur. Ovviamente non era il mio pubblico, ma mi sentivo euforico a salire quel palco, era anche un po’ mio. L’esperienza in sé è incredibile, mi sono sentito privilegiato a viverla. Il suono! il suono delle persone presenti, l’intensità…è qualcosa d’incredibile di cui avere esperienza, davvero.