Da Alien ad Avatar, Sigourney Weaver si racconta: “Ridley Scott e James Cameron mi hanno ascoltata”

Il Leone d’oro alla carriera Sigourney Weaver ripercorre la sua carriera cinematografica, nata per caso e illuminata da grandi registi che si sono fidati di lei, anche quando erano in disaccordo con la loro visione.

di Elisa Giudici

Diretta, schietta, aperta: Sigourney Weaver non schiva le domande e non glissa sui momenti non semplici della sua carriera. Alta, statuaria, capace d’intimorire Al Pacino e di apprezzare la sincerità con cui Peter Weir le disse che mancava d’esperienza.

Cresciuta nella Hollywood appannaggio quasi esclusivo degli uomini, divenuta icona di una futura generazione di pioniere del cinema con il personaggio androgino, tosto e ribelle di Ripley, la leonessa Sigourney Weaver ha raccontato nella sua masterclass veneziana come ha costruito un rapporto di fiducia e rispetto con i grandi registi hollywoodiani che le hanno cambiato la vita e la carriera.

A seguire potete leggere la traduzione e trascrizione integrale della conferenza tenutasi oggi al Lido.

Sei nota come attrice cinematografica, ma i tuoi inizi sono stati teatrali, sin da giovanissima. Non ti immaginavi attrice su grande o piccolo schermo all’inizio.

No, vivevo per il teatro. Ero alle medie quando interpretai uno dei miei primi ruoli, un uomo omosessuale molto chic. Avevo sempre delle parti molto strane. Era difficile per me farmi dare un ruolo nelle recite scolastiche per via del fatto che da giovanissima ero già molto, molto alta. Volevano sempre farmi fare un albero, un ruolo sullo sfondo. Ero alta quasi come adesso già quando avevo 11 anni. Ero come una sorta di ragno dalle zampe lunghe che inciampava nei mobili e nelle suppellettili che avevo intorno, molto goffa. Era difficile trovare ruoli femminili per me, anche nelle piccolo produzioni.

L’altezza ti ostacolava.

Sì e no. Credo che questa altezza mi abbia protetta dal punto di vista fisico quando ero molto giovane, perché intimorivo le persone, gli uomini. Allo stesso tempo mi ostacolava dal punto di vista professionale. Voglio dire, Al Pacino con me girava stando seduto, i colleghi maschi non volevano apparire bassi al mio fianco e questo spesso ha creato problemi (ride).

Ero alta e vivevo di teatro. Amavo i film e il cinema, ma non mi immaginavo sul grande schermo. Dato che il teatro in lingua inglese ha un canone così incredibile, così vasto, sempre in scena nei teatri inglesi o statunitensi, pensavo sarei andata avanti per sempre a metterlo in scena.

Invece poi è arrivata la sceneggiatura di Alien.

Quando mi arrivò la sceneggiatura, non avevamo idea del lavoro che avrebbe fatto H.G. Giger, l’illustratore che ha creato la dimensione visiva degli alieni e del futuro raccontato dal film. All’epoca quando parlavi di alieni e fantascienza pensavi a blob gialli e viola. Andai a trovare Giger a casa sua e finii nel posto sbagliato (ride). Quando riuscii a raggiungerlo, mi mostrò delle illustrazioni incredibili, le bozze per la creatura realizzate con Carlo Ramboldi. Non c’era niente di simile all’epoca, tutto era così spaventoso, così sensuale. Ho pensato subito che le persone se la sarebbero fatta sotto dalla paura.

A proposito di paura…come si rebnde la paura su schermo?

Non penso che si possa davvero interpretare la paura su grande schermo. Piuttosto puoi interpretare tutti i segni comportamentali, fisici, che segnalano agli altri che sei terrorizzato, che non sai cosa fare. È un’emozione troppo primordiale.

All’epoca di Alien gli effetti digitali erano ancora di là da venire. Come hai lavorato sul set con Ridley?

Fu più facile del previsto perché Ridley si spese molto per farci lavorare al meglio. Poteva darmi una sagoma e dirmi “ecco reagisci a questa forma fingendoti terrorizzata”. Invece trovò in un pub, scovò questa persona altissima e lo mise in un costume con le fattezze di Alien. Non me lo disse, lo vidi sul set per la prima volta e…non interpretai molto. Si chiamava Tom. Rimase in quella tuta per tutto il tempo, sotto il sole e sotto l’acqua, una volta si dimenticarono anche di mettergli l’ossigeno. Non era facile per lui. Gli sarò sempre grata per avermi dato una presenza umana con cui lavorare.

Vi aspettavate questo successo travolgente?

Non ci aspettavamo questo successo, no. Il film costò solo 40 milioni di dollari e venne praticamente girato a braccio. Per buona parte delle riprese Ridley non aveva idea di come finire il film, lui continuava a fa ruotare cineprese, a fare bozzetti, a improvvisare. Finché gli dissero “devi chiudere le riprese in 3 giorni” e con la sua fantastica troupe portammo a casa il risultato, improvvisandolo..

Nonostante il successo di Alien, hai spesso citato Un anno vissuto pericolosamente di Peter Weir come il film che ti ha cambiato la vita.

Sì, perché mi salvò in un momento molto complicato a livello personale e professionale. Cominciai a lavorare con Peter Weir dopo essermene andata da un set perché ero in una posizione molto sgradevole, lavoravo con una persona che non voglio nominare che non era professionale e non rispettava certi limiti.

Quando cominciai a lavorare per lui, Weir fu sincero, come tutti gli australiani: mi disse che avevo poca esperienza, capì che ero insicura per via della recente scottatura sull’ultimo set e mi disse “parla con gli altri interpreti, impara da tutti”.

Mi ricordo che sul set ogni giorno ci suonava queste musiche incredibili per farci immergere nella storia, non so come le tolse dal montaggio finale quelle tracce. Quell’esperienza mi cambiò la vita, mi fece innamorare del cinema per davvero.

Da lì la tua carriera non si è mai fermata, hai fatto tantissime pellicole differenti.

Di questo mestiere mi piacciono gli estremi e la varietà. Le storie cambiano forma e qualità una dopo l’altra. Come attrice voglio provare sempre nuove sfumature. Da inteprete posso dire che mi piacciono i personaggi, posso amarli, ma quello che mi fa dire sì a un progetto è sempre la storia. La narrazione è sempre più grande dei singoli personaggi e spesso, quando un film non è riuscito, il problema è che la storia non è troppo grande per le capacità di chi la gira di portarla in vita.

Come attrice ti capita spesso di contribuire alla scrittura del tuo personaggio?

Quando ero più giovane trovavo barbarico che i film venissero girati sottosopra, non in ordine, in modo anarchico. All’epoca di Alien chiesi a Ridley se secondo lui Ripley sapeva di avere ragione nel suo metodo per cercare di sopravvivere e lui mi disse di sì, ma io gli risposi che secondo me stava improvvisando, completamente all’oscuro di cosa sarebbe successo, e così l’ho interpretata. È stato il mio contributo alla scrittura del personaggio, diciamo così.

In genere non mi immischio della scrittura dei personaggi, quando hai una buona sceneggiatura basta che fai il tuo lavoro. Spesso però ti ritrovi con sceneggiatori maschi che quando devono creare una “donna forte” la fanno muovere e parlare come una professoressa di educazione fisica perennemente arrabbiata. Mi è capitato più volte di dire che basterebbe scrivere una donna forte come si scrivono gli uomini forti, ma non succede spesso.


Ripley è diventata una vera e propria icona. Ti ha colto di sorpresa la sua popolarità inalterata a decenni di distanza?

No, non mi aspettavano che Ripley divenisse così iconica. Sai, Winona Ryder ieri mi ha detto che aveva un poster di Ripley appeso in camera quando era giovane. Io non posso che pensare “bel lavoro Ripley” quando mi imbatto nelle prove tangibili di come questo personaggio ancor oggi viva nei lettori dvd, nelle tv di tante ragazze e le ispiri.

Sei nota soprattutto per i tuoi ruoli drammatici, tosti, ma dichiari spesso che vorresti fare più commedie.

È vero. Senza falsa modestia, credo di esserci molto portata. Far ridere e avere i tempi comici giusti sono dei talenti: o ci nasci o no. e io penso, senza modestia, di avere quel che serve per fare commedia.

Un’altra esperienza che spesso citi come cruciale per te è stata quella sul set di Gorilla nella nebbia.

Andare in Africa e lavorare da vicino con questi animali è stata un’esperienza trasformativa per me e per tutti coloro che erano sul set. I gorilla hanno più del 98% del genoma in comune con noi, ma vivono una vita ben più nobile della nostra, pensa che non litigano mai tra di loro, Poi io sono cresciuta a New York, trascorrere così tanto tempo nella natura selvaggia del Ruanda è stato incredibile, un’esperienza totalmente nuova.

All’epoca non usammo alcun tipo di CGI. Eravamo là con un gruppo di ricerca scientifico che mi insegnò a stare vicina ai gorilla in sicurezza. Una cosa che le persone non sanno è che in un gruppo di gorilla il 97% di loro non era interessata a me, il 2% non mi voleva lì e due o tre di loro non vedeva l’ora curiosare nel mio zaino, di toccarmi i capelli.

In questo caso hai interpretato una vera icona: Dian Fossey.

Pensa, quando ho incontrato per la prima volta Dian lei non ha voluto vedermi. Eravamo nello stesso edificio, ero andata lì apposta, ma lei non voleva vedermi, non mi spiegarono perché. Trovai sul tavolo della stanza dove si sarebbe dovuto svolgere l’incontro una lettera in cui parlava a degli amici genitori di questa Cindy, su quanto fosse importante per tutti, su quanto la loro amicizia era basata sul fatto di non piangere uno di fronte all’altro. A un certo punto ho capito che Cindy era una cagnolina che era morta da poco e per Dian tutti - persone e animali - erano esattamente sullo stesso piano. Soffriva un lutto identico a quello per la morte di un essere umano. È stato più importante che incontrarla.

Uno dei tuoi ruoli più amati è quello di Una donna in carriera di Mike Nichols, in cui interpreti Katherine, che talvolta è un po’ perfida.

Io e Nichols avevamo un’amica in comune che entrambi adoravamo su cui abbiamo basato il personaggio di Katherine. Tanto che alle volte sghignazzavamo quando in una scena era evidente il legame tra personaggio e persona, anche se abbiamo mantenuto il tocco leggero nel richiamare quella conoscenza comune.

Credo questo film e questo personaggio funzionino perché anche se talvolta è cattiva, la mia Katherine una base realistica di una persona che tra l’altro amavamo molto.

Sei molto amata a Hollywood anche per come, negli anni, non hai esitato a lavorare con registi senza grandi successi, che ancora stavano girando i loro primi film.

È vero, parliamo di registi, solo registi. Per tanto, tanto tempo infatti non ho avuto proposte da registe donne ed è una mancanza per cui ho sofferto.

Ho sempre dato fiducia a giovani registi senza grandi successi alle spalle perché se uno non ha quel che serve per fare questo mestiere, se è una sorta di “truffa”, lo capisci ben prima di arrivare sul set. Spesso questi registi sono così appassionati che quando ti parlano del loro progetto che è impossibile dire loro no.

Tra le tue collaborazioni più note e durature c’è sicuramente quella con James Cameron, iniziata sul set di Aliens.

Ricevetti la sceneggiatura di quel film da lui. All’epoca io proprio non sapevo chi fosse. fui travolta dalla dimensione della sua visione: era una saga, era attenta al dettaglio ,era un sequel ambizioso. Gli dissi sì ancor prima di incontrarlo di persona per parlarne faccia a faccia.

Lui ascoltava già all’epoca quello che dicevo, prendeva in considerazione la mia opinione. Avevo letto la sceneggiatura tutta d’un fiato, saltando alcune note sulla descrizione delle scene. Durante la pre-produzione lui a un certo punto mi parlo delle pistole, della armi e io mi irrigidii: sono sempre stata per un controllo ristretto sulla diffusione delle armi, non volevo sparare tutto il tempo. Lui risolve il qui pro quo portandomi a sparare in un campo aperto. Mi fece sparare centinaia di proietti con un’arma automatica, perché capissi come poteva dare dipendenza, essere piacevole, come una droga. Poi però, nei film successivi, ridusse al minimo le scene in cui sparavo o usavo armi.

Stai ancora lavorando con lui per i prossimi 3 film di Avatar, in cui ti ha dato la possibilità di interpretare due personaggi distinti.

Mi sono impegnata a fare 5 film e 2 personaggi. All’inizio è stata tutta una questione di fiducia: chi è nel cast si è dovuto fidare. Abbiamo firmato un contratto per filmare 5 film senza sapere cosa sarebbe successo su Pandora e ai nostri personaggi. Prima abbiamo firmato, poi Jim si è preso 5 anni per scrivere il tutto.

Per nostra fortuna è un lavoro fantastico. Ancora oggi fatico a credere a quello che abbiamo portato su grande schermo. Penso che sia anche molto merito di Jon Landau, che gli ha creduto ancora prima che la tecnologia necessaria per creare il mondo di Avatar esistesse. Landau è scomparso da poco, ma è stato vicino a Jim in tante imprese produttive chiave per la sua carriera. Con Avatar Jim gli ha parlato di questo pianeta alieno, della sua visione, spiegandogli che bisognava inventarsi da zero la tecnologia per girarlo e che ci sarebbero voluti anni di lavoro, di spese. Jon rispose: “ok, quando cominciamo a lavorarci?”

Per quanto riguarda il mio secondo personaggio interpretato in Alien, la piccola Kiri…è nato solo perché durante un pranzo insieme a Jim a Los Angeles gli ho detto che il personaggio della dottoressa Grace aveva il limite di non avere una connessione profonda con l’ambiente, con la natura. Invidiavo questo aspetto ai colleghi. Lui tornò a casa e scrisse il ruolo di Kiri.

Dei tuoi progetti futuri ce n’è qualcuno che ci consigli di tenere d’occhio?

Dust Bunny, un piccolo film horror di Bryan Fuller in cui non faccio un personaggio proprio positivo, che non vedo l’ora arrivi in sala. Avrei tanto voluto portarlo qui a Venezia, però non è ancora pronto. È un film molto oscuro, temo che negli Stati Uniti non verrà capito

Parla di questa giovanissima ragazzina che crede che i cumuli di polvere sotto il letto, in inglee dust bunny, uccidano le persone. Così una notte, quando vede sui tetti un assassino che sta fuggendo dopo aver ucciso qualcuno, lo assolda per uccidere il suo dust bunny. L’assassino lo interpreta Mads Mikkelsen.

Non posso dire ancora molto a riguardo, ma per me è già un piccolo cult.