Jane Campion si racconta: dagli inizi in Nuova Zelanda a quando mise in soggezione anche Hervey Keitel

LA regista per eccellenza si è raccontata al Festival di Locarno e noi eravamo lì a raccogliere la sua importante testimonianza. Lo speciale e il video

Tenuta sportiva, sandali da montagna (ma griffati Dior) e i lunghi capelli bianchi raccolti in una coda di cavallo: Jane Campion dà da subito l'impressione di essere una persona cordiale, alla mano, diretta. Impressione rafforzata dalla conversazione col pubblico del Festival di Locarno, in cui la regista ha raccontato gli inizi e i picchi del suo cinema venuto da lontano. Impressione consolidata dalla mezz'ora abbondante in cui si è fermata a fare autografi, selfie e parlare con quanti si erano messi in fila per condividere un ricordo o un momento con la vincitrice del Pardo d'Onore Manor 2024. 

Il cinema di Jane Campion è stato protetto da mentori francesi dopo essere sbocciato nella remota Australia, influenzato dai cineasti europei e statunitensi, capace di mettere in difficoltà con la sua sovversione delle regole anche attori di grande esperienza come Harvey Keitel. Le sue scelte ardite - da quelle di cast a quelle di sceneggiatura - l'hanno resa la prima donna a vincere una Palma d'Oro a Cannes con "Lezioni di Piano", il primo nome sulla bocca di tutte le registe di oggi quando parlano di modelli o fonti d'ispirazione. Registe che Campion conosce a menadito e dimostra a sua volta d'apprezzare. 

Jane Campion si racconta: dagli inizi in Nuova Zelanda a quando mise in soggezione anche Hervey Keitel

Lei, che da autodidatta è arrivata a Cannes con un corto girato quasi clandestinamente, senza nemmeno sapere cosa fosse un campo lungo. Lei, che da giovane si stupiva davanti ai film di Gillian Armstrong che lasciassero girare lungometraggi di quel tipo anche alle donne. Lei, doppia vincitrice d'Oscar che ha fatto d'apripista a un'epoca più inclusiva verso le donne e che ora s'impegna a passare la staffetta ai giovani cineasti di domani. 

A seguire la trascrizione completa e tradotta dell'intervento di Jane Campion al Festival di Locarno.

Un'ora con Jane Campion: la regista di Lezioni di Piano e Il potere del cane si racconta 

Quanto sei a tuo agio a discutere i tuoi film e la tua carriera? Lo fai con piacere o ti costa fatica?

Alle volte può essere affascinante sentire le introduzioni di incontri come questo perché a mio modo di vedere un cineasta è spesso inconsapevole del suo stesso processo creativo. In occasioni come questa vedo e sento l’impatto sul pubblico che ha la mia opera, sento quello che è stato percepito, che magari nemmeno sapevo fosse lì.  

Partiamo dall’inizio. Sei nata a Wellington, in Nuova Zelanda, seconda di tre figlie. Tuo padre dirigeva un teatro, tua madre recitava e scriveva copioni. Tra l’altro erano nati esattamente lo stesso giorno, giusto?

Sì. Mia madre e mio padre sono nati lo stesso giorno, lo stesso mese, lo stesso anno. Quando incontravo dei ragazzi da giovane gli chiedevo sempre quando erano nati ma è difficile raggiungere quel livello di romanticismo. 

È vero che tuo padre veniva da una famiglia che faceva parte di un ordine religioso molto severo, che proibiva film, musica, teatro? 

Sì, è vero. Per seguire la sua strada, mio padre dovette andarsene di casa, lo fece con uno dei suoi fratelli. Credo fosse molto orgoglioso di sé per aver preso questa decisione. Mio nonno fece la Prima guerra mondiale, nella vita faceva il macellaio. Morì da giovane. 

I tuoi in Nuova Zelanda i tuoi crearono una compagnia teatrale itinerante prima di trasferirsi a Wellington. Tu da giovane volevi prendere un po’ le distanze da loro, giusto? Dicevi che trovavi sbagliato seguire le orme dei genitori.

Da ragazzina trovavo difficile pensare di individuare la mia strada seguendo il cammino dei miei. È difficile definire sé stessi all’ombra dei propri genitori. Volevo fare esperienze in Nuova Zelanda senza sentire il peso della connessione con i miei, volevo fingermi orfana. Finii per passare buona parte del tempo in Australia, dopo una breve parentesi a Londra, da mia sorella, che studiava recitazione lì. 

In passato hai detto che il periodo della scuola per te è stato difficile. 

Non ero tagliata per la scuola e ho odiato andarci: da ragazzina adoravo la libertà e non amavo come la scuola viene gestita, come se fossimo nell’esercito. Ero molto delusa, mi sentivo ribelle rispetto al sistema d’insegnamento. La maestra si sedeva in cattedra, apriva il libro e io pensavo: “studiare in questo modo…potrei farlo anche io da sola, a casa mia”. 

Questa tua frustrazione adolescenziale si riflette in molte tue opere iniziali, tra cui Un angelo alla mia tavola. Com’è stato il periodo adolescenziale per te?

Essere un’adolescente è stato uno dei periodi di transizione più difficili della mia vita, in cui passavo dall’essere una ragazzina spensierata ad avere delle responsabilità. Inoltre provavo continuamente sentimenti tra loro contraddittori. Mi sentivo a disagio, sempre. Penso che avere 14 anni sia uno dei momenti più complessi della vita di una donna. Oggigiorno poi si hanno 14 anni anche online, tra le insidie e le crudeltà del mondo di Internet. Mi piace pensare che nella realtà queste adolescenti sono protette e aiutate da una comunità di adulti che le circonda, ma nel virtuale è tutto deregolato, libero, selvaggio…fa molta paura. 

Passiamo all’università, dove hai studiato prima psicologia, poi antropologia. Pensi che queste scelte abbiano influenzato anche il tuo cinema? 

Non riesco a quantificare se e quanto i miei studi universitari abbiano influenzato il mio lavoro di cineasta. Come persona sicuramente mi ha lasciato molto, a partire dagli studi sul lavoro linguistico di Levi Strauss. Per esempio sull’importanza del linguaggio per ogni cultura, su come impatta e plasma il cervello degli individui nella comunità. Inoltre ti aiuta a capire perché un certo tipo di cultura crea un certo tipo di storie e miti. L’antropologia è importantissima per farci capire sin da giovani che non ci sono culture superiori, ma sono tutte complesse in modo differente. 

Da giovane poi hai fatto anche un lungo viaggio in Europa, una sorta di Grand Tour. Sei stata anche in Italia, hai studiato la lingua.

Sì, io parlo un poco di italiano (ride). 

Il viaggio è protagonista di molti tuoi film: Lezioni di piano, Un angelo alla mia tavola, Holy Smoke, Ritratto di signora. Diventa un elemento formativo per le protagoniste dei tuoi film. È stato così anche per te? 

Viaggiare in Europa e per il mondo da così giovane è stato fantastico. All’epoca mi sono sentita molto sola, per la prima volta lontana da mamma e papà, ero molto legata a loro. Essere sola in quel periodo mi ha aiutato, mi ha buttata tra le braccia del cinema dopo essermi guardata dentro a lungo. A Londra mi sentivo davvero sola, passavo tutto il tempo in sala. Questo si ricollega a quando a piccola passavo molto tempo a letto, perché ero di salute abbastanza cagionevole. Dall’età di 11 anni cominciai ad avere polmoniti o comunque malattie che mi costringevano a letto per intere settimane. La malattia può essere formativa, ti rende creativa, indipendente, forte. 

Sei poi tornata in Australia e hai deciso di studiare cinema. 

Sì, avevo già cominciato al Chelsea college a Londra, ho continuato una volta tornata più vicina a casa. In Australia, ho trovato una fantastica scuola d’arte, quei due anni mi hanno insegnato tutto del guardare all’arte. Lo sguardo è un linguaggio: bisogna impararlo, bisogna incarnarlo, finché non diventa naturale mettere qualcosa dentro una cornice, un’inquadratura. L’economia della visione è parte integrante di questo lavoro, così come trovare te stesso dentro questo processo. Io per esempio ho capito di essere una narratrice di storie. 

Sono arrivati in questo modo i tuoi primi corti, che hai girato quasi da autodidatta della tecnica cinematografica. 

Mi sono insegnata da sola, da autodidatta, come fare i film a livello tecnico, ma devo dire che quei primi corti ero davvero brutti. Dalla mia avevo sicuramente l’entusiasmo, diciamo così. Ho girato Tissue in super 8 ed era pessimo, lo feci vedere agli amici con un proiettore che mi ero portata dietro apposta. 

Ho letto che all’epoca di “Tissue” non sapevi nemmeno cosa fosse in campo lungo. 

Non sapevo nemmeno cosa fosse un campo lungo, confermo, ma magari non tutti nel pubblico lo sanno (ride). Avevo scelto questa lente che faceva questo effetto così “da lontano”, l’equilvalente del 0.5 nello scattare fotografie con un iPhone. Ricevevo un sacco di commenti su questo “sguardo distante” e mi dicevo “ma cosa dicono, perché dicono che è una scelta?” e poi capii che c’era questo vastissimo mondo delle lenti. Ricordo di aver pensato: “sarà l’ultima volta che mi godo davvero il fare un film”. C’era così tanto da imparare…ancora oggi trovo estenuante pianificare una scena, ne parlo spesso con i colleghi, voglio capire come si muovono loro, dove metti la cinepresa, spesso bisogna ripartire dall’inizio. 

Alle volte sono davvero sotto pressione perché capisco che non c’è altro modo di girare una scena se non quello che ho immaginato, magari con una bellissima luce dell’alba o al tramonto. Per esempio ne Il potere del cane, quando i due protagonisti danzano in cima alla collina? Ecco, questo è il tipo di stress che affronta chi fa film. Mi ricordo di aver detto alla mia squadra produttiva: “mi servono più opzioni per questa scena” e loro mi hanno detto “non ci sono altre opzioni, devi farla così”. Avevamo poco tempo, praticamente una sola chance ed è venuta benissimo. Ho pensato “questa è la nostra buona stella”…e poi è arrivato il COVID, la produzione si è fermata completamente. Però quello non è stato stressante per me, mi sono rilassata. Credo che parte del mio lavoro sia proprio imparare a gestire questi livelli di stress. 

In seguito hai frequentato una scuola di cinema per la TV. In passato hai detto di non esserti sentita molto accettata. 

Oh sai com’è, erano tutti ragazzi. Arrivavano già con queste enormi attrezzature…e così via. Sono stata davvero molto fortunata alla scuola di cinema, molte persone che avevano un modo di pensare simile al mio mi hanno supportata. Lo facevano anche se loro lavoravano a documentari naturalistici per la TV, non sapevano nulla di cinema. Facevano i nostri film assieme di notte, sono stati fondamentali per capire come montare “Peel”. 

Volevo chiederti se c’è qualche regista della new wave australiana di quegli anni che ti piace. Di solito si citano sempre cineasti americani di quel periodo…

Sì. Amavo i film di Peter Weir, quelli di George Miller, adoro “Mad Max”, è estremamente creativo. Quando vidi il film di Gillian Armstrong “La mia brillante carriera” mi stupì che lasciassero fare film a donne. Fino al quel punto non sapevo ci fossero registe contemporanee in attività. Lei era stata alla mia scuola di cinema, ero orgogliosa di lei. In quel periodo ero influenzata dai cineasti europei e americani che vedevo ai festival di cinema. 

Jane Campion si racconta: dagli inizi in Nuova Zelanda a quando mise in soggezione anche Hervey Keitel

In molti all’epoca descrissero il tuo lavoro come influenzato da David Lynch…confermi?

Sì. David Lynch ebbe un’enorme influenza sulla giovane me per come esplorava liberamente il subconscio. I suoi film erano quasi una fiaba del subconscio. Ho sempre amato il cinema di Luis Buñuel. Trovato come fosse un adulto rimanendo infantile. 

Sono molto consapevole di essere il prodotto della mia epoca, delle influenze che a volte sono consapevole di avere fino a un certo punto. Alla fine è difficile fare cinema senza amare il cinema. Altri due nomi che citerei sono quelli di Jim Jarmush e di Spike Lee. 

Ci citi altri registi che ti piacciono? 

Roman Polanski, Paul Thomas Anderson, Agnes Varda. Amo molto le giovani cineaste che si stanno facendo strada oggi: Justine Triet, Audrey Diwan, Julia Ducournau. Sicuramente un regista che mi ha influenzato moltissimo è Francis Ford Coppola, in particolare nella fase successiva a “Il Padrino”. Film come “Apocalypse Now”, “La conversazione”. È difficile non farsi influenzare dai film che ti colpiscono quando sei giovane. “Apocalypse Now” lo vidi da giovanissima, mi fece un’impressione enorme. 

Mi viene in mente che all’epoca hai detto che “Peel” è stato il tuo “Apocalypse Now”.

È imbarazzante, considerando che è un cortometraggio di 9 minuti ma fu il mio Apocalypse Now. Finii all’ospedale con una broncopolmonite, incapace di gestire lo stress enorme. Mi chiesi come fare carriera se 9 minuti di corto mi avevano provato così tanto, ci mesi a riprendermi. Fu dura, ma quell’esperienza mi insegnò tanto. 

Il mio insegnante dell’epoca mi disse di cancellarlo, fu crudele nel modo peggiore: tentando di essere comprensiva. Alle volte però le persone che sono crudeli con te risultano enormemente utili. Lui non vedeva in “Peel” quello che vedevo io e alla fine ridussi quel corto di 16 minuti in 9 tentando di fargli capire cosa ci vedevo io. Quel processo mi insegnò l’economia della storia, il montaggio: grazie a quelle critiche capii come montare, come gestire i dialoghi. Avevo un attore che diceva malissimo le battute, ero disperata ma un collega mi disse: “sì dice la battuta male ma guarda che ripresa potente del dietro della sua testa, puoi farci quello che vuoi” e mi aprì un mondo.  Ci misi un anno a rimettermi da quell’esperienza, ma imparai a prendermi cura di me durante le riprese. Dormire, mangiare, fare yoga non sono negoziabili per gestire lo stress. Inoltre credo che oggi il montaggio sia uno dei miei punti di forza. Per montare bene devi spesso attraversare “la valle delle illusioni”: per farcela bisogna rimanere ottimisti, ma anche essere creativi, pragmatici, realisti.

Quale è stato il tuo progetto più impegnativo, più stressante? 

“Ritratto di signora” è stato difficile perché fu una lavorazione che si spostava in giro per l’Europa e fu molto lunga, 16 settimane. All’epoca avevo un figlio piccolo da cui volevo tornare. A metà lavorazione del film mi sentivo depressa, ma allo stesso tempo ero anche felice di stare girando quel film.

Insisto su “Peel” perché stato l’inizio della tua carriera, con quel corto hai vinto il tuo primo premio al Festival di Cannes…e non eri nemmeno lì per ritirarlo. 

No, non ero lì. Io devo molto a Pierre Rissient: fu lui a portarti a Cannes, a presentare i miei corti. Era un cinefilo puro, non filtrato. Con me fu sempre tenero, capiva come lasciarmi spazio in qualità di artista, non forzava mai le sue opinioni su di me. Mi trattava come gli altri registi, non in modo differente perché ero donna. L’ho visto prendersela a morte con altri colleghi, quelli di cui non gli piaceva il lavoro, con me mai. Lui mi portò a cena quel giorno, io davo per scontato che lui fosse certo che non avevo vinto niente. Tornando dalla cena camminavamo sulla Croisette e mi si avvicina un tizio del Edinburgh Film Festival e mi dice: “Ehi, hai vinto come miglior cortometraggio!” e io dissi “no guarda, non ho vinto.” e lui mi disse “Sì, hai vinto! E una donna australiana è salita sul palco al posto tuo”. 

A quel punto il critico francese Gilles Jacob consigliò all’Australian Film Commission di darti i soldi per continuare a girare e tornare a Cannes.

Sì, lui chiese loro di darmi soldi ma non ottenni nulla (ride). Quando presentai loro il progetto di “Sweetie” mi dissero che era orribile e nessuno avrebbe voluto vederlo e in certo senso avevano ragione.  Stranamente quel film fu finanziato da uno strano tipo che bazzicava l’industria del cinema per…tentare di evadere le tasse? Non so come entrò in contatto con i miei lavori, comunque finì che andai a incontrarlo. Mi disse “pensavamo fosse una commedia, ma non fa per niente ridere” e gli risposi che l’umorismo non può essere spiegato. Mi disse che non aveva avuto tempo di leggerlo, di spiegarglielo. Io lo feci ma era un film bizzarro, quando tentavo di spiegarlo vedevo che il sui sguardo diventa opaco. Dal nulla mi disse: “senti, stanno venendo delle persone a farci vedere delle sedie da ufficio…ci aiuti a scegliere quali prendere?” e io dissi di sì. Eravamo in tre e ci mettemmo a provare le sedie, sedendoci sopra, muovendoci. Loro due uscirono dalla stanza, io ero ancora lì che provavo questa e quella seduta quando lui entrò e disse “Ok, abbiamo deciso di finanziare il film” e io gli dissi “ma non l’hai nemmeno letto!” e lui disse “non importa, mi piaci come persona”. Alle volte le famiglie che ti finanziano i film arrivano così, da dove non ti aspetti. 

Il film non è stato accolto bene ma un critico italiano scrisse che poteva essere la delusione del secolo o un diamante grezzo che rivela un enorme talento e lui pensava fosse la seconda 

No, aspetta. Ricordo che Vincent Canby del New York Times amò “Sweetie”. Ricordo che all’epoca ci misi un po’ a realizzare che le persone lo fischiavano e lo applaudivano: entrambe le reazioni erano vere e presenti. Quando sei giovane e riesci a fare un corto, tutti sono entusiasti per te, non ricevi vere e proprie critiche. È dura quando ti ritrovi per la prima volta ad affrontare la critica. Inoltre, questo suonerà male ma voglio dirlo, come donna non sei sempre pronta a come ti strapazza la critica, a ricevere un feedback non filtrato. Sarò onesta: se non fossi già stata nel pieno della pre-produzione di “Un angelo alla mia tavola” forse avrei mollato, non è stato facile affrontare quella reazione. Non lo nego, fu doloroso venire criticata a Cannes, ma volevo una carriera e il mio mentore mi disse “vai avanti” e io feci così: cercavo idee, pensavo a come farle finanziare, le realizzavo. Alla fine sono sopravvissuta ai miei critici più feroci, quelli che alzavano gli occhi al cielo a ogni mio film e pensavano “eccola di nuovo”. Sono passata dal venirne influenzata negativamente a pensare “Dicono che sono arrogante? Beh è un traguardo fantastico!” 

“Sweetie” rompe così tante convenzioni cinematografiche, forse fu quello a scatenare tante reazioni forti. L’avevi fatto intenzionalmente?

Io amo molto quando i lungometraggi d’esordio sono “vigorosamente differenti” da tutto il resto, non cercano di parodiare lo stile degli altri. Quel film l’ho fatto con la direttrice della fotografia Sally Bongers: due donne che proponevano una visione nuova…alcuni reagirono come se il nostro film venisse da Marte (ride). “Sweetie” rimane uno dei miei film a cui sono più legata: voleva essere una visione differente, continuo ad amarlo proprio perché è fatto con la sfrontatezza di chi non conosce e non tiene conto del mondo della critica. A un certo punto capimmo che era strano che la protagonista del titolo appariva così tardi nel film. Ci interrogammo se cambiare qualcosa, ma decidemmo di lasciare tutto così. 

Alcuni hanno scomodato Lacan per interpretare questo personaggio. 

Sicuramente Sweetie è una sorta di “forza del subconscio”.  Una donna che è rimasta ragazza e sua sorella è paranoica. Non lavoro così però, a partire dall’analisi. Non analizzo nemmeno i film così, cerco solo di capire cosa voleva fare il cineasta che l’ha girato. 

A proposito di questo tipo di interpretazioni. Alcuni hanno notato che sei “ossessionata” dagli alberi, sono molto presenti nei tuoi film, hanno un ruolo simbolico importante. 

Non lo so. Forse ne sai persino più tu per me. (ride)

Ieri abbiamo visto “Lezioni di piano” in piazza Grande. Mi viene da chiederti: sei ottimista? A mio modo di vedere, nei tuoi film c’è un ottimismo molto sofferto. 

Sì, mi definirei ottimista, dato che vivo d’ispirazione per il mio lavoro. Credo sia la mia personalità, sin da quando ero ragazzina e mi inventare giochi. Alle volte devo un po’ tirare le redini di questo mio ottimismo, perché cozza con quello che voglio dire. Alle volte però mi deprimo un po’ e si compensa. 

Parlaci un po’ di come hai adattato “Ritratto di signora”. 

Penso che ciò che renda il libro speciale sia come Henry James abbozzò le relazioni rispetto a lei, ai suoi affetti, alle sue responsabilità. Voleva ricordarci che tutto questo era nella sua vita ma ora era libera perché aveva finalmente capito cosa le era successo, come era stata manipolata nel scegliere chi sposare. Penso volesse dirci che comunque, in un certo modo, lei era libera, perché non era più una sciocca, affrontava il suo destino in maniera consapevole. 

Jane Campion si racconta: dagli inizi in Nuova Zelanda a quando mise in soggezione anche Hervey Keitel
Ritratto di Signora

Alcuni hanno definito questo film “un horror sotto le mentite spoglie di un film in costume”. La tua lettura è molto oscura, non piace ad alcune femministe perché dà l’impressione che, da una certo punto di vista, il personaggio della protagonista voglia essere sottomesso, manipolato. 

Il femminismo è sottile e complesso come punto di partenza per capire le donne e descriverne il loro posto del patriarcato. È una forma di potere nella nostra società e alcune donne vogliono avere potere e quindi vogliono sedersi a quel tavolo, osservandone le regole. È complicato, lei fa l’errore di pensarsi come un uomo potente e manipolatore ma non è così. 

È anche uno dei tuoi film sui pericoli dell’amore. 

Lui le dice “sono disperatamente innamorato di te”, è la base di ciò che le principesse si sentono dire, è ciò che molte ragazze e donne sognano di sentirsi dire. Penso James abbia scritto un libro molto acuto, capendo molto bene sia la psicologia maschile sia quella femminile. Amo molto questa capacità dell’immaginazione di far mettere un uomo nei panni di una donna e viceversa. Però ora mi sono dimenticata la tua domanda (ride)

In the Cut, Il potere del cane…molti tuoi film raccontano i pericoli dell’amore. 

Non saprei. Per me l’amore è la cosa migliore esistente. Penso che sia più preciso dire “i pericoli dell’amore romantico” che ha molti tratti in comune con la malattia e la dipendenza. Quello però non è vero amore. 

Tornando a “Lezioni di piano”, hai rilevato che un dipinto di tua madre ti ispirò quella storia. 

Sì, è uno degli esempi di come funziona la mia immaginazione. Da ragazzina ero malata e finii per molto tempo allettata nel letto di mia madre. Ero così stanca della mia stanza. Nella sua stanza c’era questo quadro di una donna vittoriana in una foresta e mi ispirava così tanto. All’epoca avevo 9 o 10 anni. Quando cercai soldi per finanziare il film, usai quel dipinto tra le ispirazioni visive per spiegare il film. 

Quel film prova anche quanto sei brava a fare casting. Penso che nessuno all’epoca avrebbe pensato a Harvey Keitel per quel ruolo in “Lezioni di piano”. Si potrebbe dire di tantissimi altri interpreti del tuo cinema.

Scegliere gli interpreti è molto difficile. Si comincia settimane prima l’inizio della vera e propria pre-produzione, quindi non conosci nemmeno ancora così bene il tuo film. È nevrotico, ti fa salire l’ansia, anche perché i grandi attori non fanno provini, al massimo puoi incontrarli e parlarci un po’…fa davvero paura. Credo però sia necessario essere audaci. Per quanto riguarda Keitel penso di averlo visto ne “I duellanti” di Ridley Scott e rimassi molto impressionata da come affrontò il ruolo con un contorno storico, non voleva essere solo nei film di Scorsese. All’epoca mi mossi con cautela, anche perché capitava spesso che gli interpreti non volessero prendere parte a film fatti da donne. 

Harvey però ama le donne ed è profondamente femminista. Quando venne a conoscenza del film, fece di tutto per aver il ruolo. Ricordo che ero in giro per gli Stati Uniti a provinare attori per il ruolo e lui venne da me e mi disse, quasi piangendo, che voleva quel ruolo e da neozelandese la cosa mi confuse moltissimo. Quando incontrai uno degli altri candidati lo chiamai per errore “Harvey” e fu in quel momento che capii di avere già preso la mia decisione. 

Lui fu sempre gentile, rispettoso, nonostante avesse infinita esperienza più di me e mi lasciò essere la regista, pur proponendo le sue idee. Un paio di volte mi disse “posso farti vedere a cosa stavo pensando? Se non sei soddisfatta, subito dopo la farò esattamente come vuoi tu, ma lasciami provare”. Diede sempre il massimo, in entrambe le versioni. 

Jane Campion si racconta: dagli inizi in Nuova Zelanda a quando mise in soggezione anche Hervey Keitel
Lezioni di piano

Come sei arrivata a Michael Nyman per la colonna sonora del film? Eri influenzata dal suo lavoro con Peter Greenaway?

Sì, decisamente, fecero un lavoro fantastico, quei suoni ripetitivi per cui era famoso. Michael è un tipo super amichevole con cui parlare, ma vuole solo fare shopping e giocare a cricket. Lui venne a Sydney, noi eravamo nervosissimi per la possibilità di incontrare un compositore così famoso e lui strimpellò due note sul pianoforte e poi disse “andiamo a fare shopping”. Alla fine della giornata gli chiesi se potevamo parlare della colonna sonora e lui rispose: “oh sì, certo, farò ricerche sulla musica scozzese dell’epoca e partiremo da lì”. Io pensai fosse fantastico ma poi gli dissi “Senti, pensi di poter lavorare in modo differente dal tuo solito, evitando quel dan-dan-dan-da?” e lui mi disse “ma Jane, quello è il mio marchio di fabbrica!”. Io non mi arresi e gli dissi “puoi trovare un altro marchio per questa colonna sonora?” Lo fece. Fu un lavoro magnifico. 

Fu imbarazzante fargli quella richiesta, ma a volte è cruciale trovare il coraggio di dire quello che vuoi dire. Sei il regista, hai una visione, sei al comando e chi ti segue vuole essere parte, perciò una componente del lavoro è chiedere alle persone di prendere parte a questa visione, di seguirti. 

C’è una scena in “Lezioni di piano” in cui la protagonista accarezza con insistenza e intenzione il fondoschiena nudo del marito. C’è qualcosa di vulnerabile in lui, è sorprendente. Era voluto questo…ribaltamento? 

No non era voluto quel fingering…sì, fui abbastanza ardita. Sam O’Neill era un po’ in difficoltà. La scena voleva trasmettere il fatto che la protagonista Ada sentisse finalmente di avere una volontà e una capacità di azione anche nella sfera sessuale mentre esplorava. Anche nelle scene con Harvey lui era davvero molto turbato quando lei prendeva l’iniziativa, si voltava e mi diceva “Jane, c’è qualcosa che non va qui, mi sento…come un oggetto!” e io gli dicevo “Lo so Harvey” (ride).

Nei tuoi film c’è sempre una componente di segreto, qualcosa che non viene detto. 

Non credo di essere una persona che sa tenere i segreti. La cosa strana dei segreti è che vieni messo a parte di un’informazione, ma non la puoi usare, va contro il mio tipo di logica. Capisco però il motivo: alle volte devi proteggere le persone che hai intorno, che ami, a partire da te stessa. 

Jane Campion si racconta: dagli inizi in Nuova Zelanda a quando mise in soggezione anche Hervey Keitel
Il potere del cane

Mi viene in mente un episodio accaduto sul set di “Il potere del cane”. Dovete sapere che Kirsten Dunst è una persona molto maliziosa, ironica. Un giorno venne da me e mi disse: “sai, io e  Kodi Smit-McPhee abbiamo un segreto grosso tra noi…magari ti dirò qual è”. Loro sono madre e figlio nel film. Mi disse che secondo lei il suo personaggio sapeva che il personaggio di Kodi aveva causato la morte del suo primo marito. Io ero molto scettica, perché nella storia non è ovviamente così, ma vedevo come questo segreto in comune aiutasse la chimica della loro relazione su schermo. Agli attori questo genere di dinamiche risulta molto utile, gli dà una grande energia. 

Come ti senti a essere oggi quella che ispira una generazione di registe? 

Per anni sono stati altri a tenere aperte le porte per me, sono contenta adesso di poter essere io a tenere aperta una porta per chi mi segue, di aver fatto vedere con il mio cinema che i film delle donne posso esistere ed essere apprezzati. Moltissimo è cambiato da quando io ho mosso i miei primi passi, ora è evidente che una donna possa vincere premi, avere una carriera. Sono contenta sia così. 

Puoi dirci qualcosa di cosa stai facendo o farai?

Non voglio ancora parlare dei miei progetti futuri perché sono abbastanza folli. Al momento sto lavorando a una scuola di cinema itinerante in Nuova Zelanda, che sono riuscita a convincere Netflix a finanziare. Io da giovane ricevetti sostegno economico e logistico dal governo australiano per studiare e fare film e voglio che anche questi giovani abbiano la stessa chance. Ci diedero migliaia di dollari per fare i nostri film e non avrei mai avuto questa carriera se non fosse successo. Ai giovani artisti servono sostegno e soldi per farcela.