Martin Scorsese racconta alla Berlinale la vita di film: quelli che ha girato, quelli che ha salvato e quello che sta preparando su Gesù
Martin Scorsese dall'infanzia alla morte, sempre col cinema nella mente e nel cuore: il regista si è raccontato alla Berlinale 2024, ricevendo l'Orso d'Oro onorario.
Il regista italoamericano Martin Scorsese riceverà oggi l’Orso d’Oro onorario al Festival del cinema di Berlino. In occasione della consegna del premio, ha incontrato la stampa, particolarmente entusiasta di poter conversare con lui.
Tante domande sul cinema, ma anche sulla sua infanzia nell’East Side, sul suo rapporto con la morte e sulle sue riflessioni sul futuro dei giovani. Ecco il resoconto di quanto raccontato da Martin Scorsese alla Berlinale 2024.
Tutto il mondo ti conosce, ma tu conosci te stesso? Come ti definiresti usando una sola parola?
Sono un mistero, direi.
Che impressione fa essere considerato un maestro, essere un aggettivo “questo film è molto scorsesiano”?
Da giovane mi montavo un po’ la testa, sarò sincero. Nel 1983, quando sono arrivato a girare Re per una notte, sono riuscito a liberarmi dal peso di come venivo percepito, dalle aspettative, un po’ da quel me stesso famoso. Anche in tempi molto più recenti, con The Irishman, ho capito che il problema maggiore ero io, la mia presenza, il mio “essere un aggettivo”, come dici tu.
Sei noto come grande cinefilo, spesso racconti di come hai scoperto i film da bambino, ragazzo. Raccontaci un tuo ricordo cinematografico.
Mi ricordo molto bene di tanti registi scoperti da ragazzino grazie alla TV. Uno di questi è l’indiano Pavel. Vidi un suo film alla televisione, adattato e doppiato in inglese, con la pubblicità in mezzo. All’epoca abitavo a New York. Ricordo che me ne innamorai, nonostante l’avessi visto in condizioni non ideali, diciamo così. Quello che mi affascinò è che i protagonisti di questo film ambientato in un villaggio remoto nella giungla erano i personaggi che di solito stanno sullo sfondo delle altre pellicole.
Da giovane vedevo tantissimi film stranieri, sicuramente molti titoli francesi e tantissimi italiani. Anche un po' di cinema giapponese, sempre in TV, sempre in inglese, sempre con la pubblicità in mezzo. Per me era un’esperienza fantastica, che ricordo bene ancor oggi.
Ripensandoci oggi penso a che impatto possa avere il cinema. Io non vengo certo da un quartiere culturale, eppure eccomi qui. Quei film mi hanno formato, cambiato, indirizzato. Così come me, altri ragazzi nel mondo possono vedere uno di questi film in TV e averne la vita cambiata, senza necessariamente finire a fare cinema.
E un ricordo d’infanzia non cinematografico?
La lasagna che faceva mia madre quando ero piccolo. Le laasagne sono sempre buone, ma quelle di mia madre erano strepitose. Mia figlia Cathy porta il suo stesso nome e ha il suo stesso talento in cucina, il che mi rende felice.
Parli spesso della morte, della tua morte, nelle interviste e negli incontri come questo. Anche se hai 81 anni, fa un po’ impressione.
Io parlo sempre dell’immanenza, sono famoso per dire che presto morirò: è vero, d’altronde. Non è un’affermazione negativa, non è fatalista. È una constatazione. Aiuta a rimanere concentrati ad usare al meglio il tempo che abbiamo mentre siamo qui. Lo trovo un approccio positivo in realtà.
So che non mi rimane molto tempo, cerco di usarlo al meglio. Perciò anche quando vedo un film appena uscito di un altro regista, cerco sempre di essere selettivo. Tra gli ultimi film che ho visto e apprezzato ci sono Past Lives di Celine Song e Perfect Days di Wim Wenders. Per questi due titoli ho trovato il tempo.
Oltre a realizzare grandi film, ti occupi anche di presiedere alla preservazione, recupero e restauro di film che rischiano di scomparire. Come ti approcci a questa attività, come fai le tue scelte?
Inizialmente io e il mio gruppo di lavoro cercavamo i film di Schrader, Spielberg, De Palma. Il nostro scopo era quello di preservare i film con cui siamo cresciuti, quelli a cui facevamo continuamente riferimento nelle nostre conversazioni adolescenziali e da giovani adulti. Cercavamo copie in pellicola di questi film in buone condizioni. Non era davvero un’impresa semplice, nonostante non fossero titoli sconosciuti. C’è sempre una magia incredibile nel scoprire un film in questo modo, quando finalmente trovi una pellicola da cui iniziare il lavoro.
In quest’epoca di crisi del cinema, anche il lavoro di noi critici e giornalisti sembra in declino. Che ruoli pensi debba avere la critica, tu che la fronteggi ad ogni film?
La critica esiste sempre all’ombra dell’arte che viene creata. Secondo me i critici cinematografici dovrebbero avere un punto di vista originale, essere sempre molto a fuoco nelle loro scrittura, più di tutto mantenere una curatela di film e registi di cui parlare al pubblico.
Quando ero ragazzo era rarissimo vedere film muti, perché le copie ancora esistenti in pellicola erano poche e si erano corrotte perché proiettate per anni in modo scorretto. Non c’era la possibilità di vedere tanto cinema straniero: c’erano film italiani, francesi, inglesi. Con Rashomon di Akira Kurosawa arrivò anche negli Stati Uniti qualche titolo asiatico. Lo ricordo come un evento epocale.
Oggi invece un ragazzo come ero io all’epoca ha di fronte a sé 100 anni di cinema da recuperare, tantissimi titoli muti ora restaurati e disponibili, cinematografie di tutto il mondo a portata di telecomando. Credo che la critica dovrebbe aiutare i giovani a darsi priorità su cosa vedere, in base ai gusti. Ciò che va di moda muore nella memoria collettiva in un giorno. Quello che ha valore dura cent’anni e più.
Ti capita d’incontrare giovani cinefili?
Continuamente. Uno degli ultimi è stato un ragazzino che ho incrociato mentre cercavamo le location che Killers of the Flower Moon, in Oklahoma. Faceva un caldo pazzesco e io visitavo questa casa di cui non ero troppo convinto. Per me che sono di New York era un posto sperduto, lontanissimo.
Spunta questo ragazzino, mi guarda e mi chiede: “Hai visto The Hourglass Sanatorium? È vero che hai aiutato a distribuirlo?” E io gli dico di sì. Per lui non ero lo Scorsese regista di film, ma il distributore. Mi ha spiazzato. Subito dopo mi ha chiesto ”Hai visto “Ashes and Diamonds” di Andrzej Wajda?” e io, sorpreso, gli dico di sì.
Più tardi ho incontrato la madre. Mi ha detto che lui e il fratello se ne vanno in giro costantemente nel pieno della notte per raggiungere cinema e videoteche della zona, vedendo quanti più film possibile. Quando un giovane cinefilo ti avvicina, quel che ha da dire è spesso sorprendente, spiazzante.
Cosa pensi dei giovani, del loro rapporto con la tecnologia e di come influenzi quello col cinema?
Un giovane può girare un TikTok strepitoso o un film di quattro ore: l'importante è il valore che porta, non il mezzo. Non dobbiamo essere spaventati dalla tecnologia, ma nemmeno esserne schiavi: questo direi a una persona giovane. Bisogna fare attenzione a creare qualcosa che abbia un valore, non pensato per essere consumato e messo da parte.
I trenta secondi più faticosi che hai mai girato?
Sono tentato di citarti quella pubblicità che feci per un profumo di Giorgio Armani. Avrei dovuto capirlo a monte, dalle lezione del cinema russo, che in pochissimo faceva tantissimo.
Ho avuto una magnifica esperienza con Giorgio, ma fu faticoso. In così poco tempo è cruciale decidere cosa c’è nel inquadratura e cosa no. Per non parlare della musica che dà l’atmosfera, la precisione e il controllo che devi avere ogni secondo per fare in modo che funzioni. È stata una fatica. Il che non vuol dire che girare sia una passeggiata, ma quella volta fu molto intenso.
Di recente hai incontrato il Papa per parlargli del tuo prossimo film, che parlerà di Gesù. Dicci qualcosa dell’incontro e del film.
La decisione di girare un film su Gesù è profondamente legata al mio essere cresciuto nell’East Side, in un quartiere in cui tutti erano molto religiosi. Sin da ragazzo mi sono molto, molto interessato al cattolicesimo. Come sai ho già girato un film a riguardo, sui missionari gesuiti perseguitati in Giappone.
Dopo che uscì Silence al cinema, ho incontrato il Papa varie volte. Quel film ha riscosso un profondo interesse in Vaticano. Stavolta, nel raccontare Gesù e la fede, la mia priorità sarà quella di trovare un modo fresco, essenziale e avvincente per farlo. Voglio che raccontare la parte più profonda del cristianesimo sia un’esperienza coinvolgente per il pubblico. Sarei felice se il risultato finale fosse stimolante e perché no, intrattenesse il pubblico. Non sono sicuro di avere ancora trovato l’idea giusta per ottenere questo risultato però.