Matrix
Dal punto di vista del linguaggio cinematografico, gli anni ’90 sono, per molti versi, un’epoca interlocutoria, di passaggio, senza particolari guizzi. Segnata in gran parte dal recupero di alcuni generi classici - il western classico di Balla coi Lupi e quello revisionista de Gli spietati, gli affreschi storici di Braveheart e Salvate il soldato Ryan – e da un certo, rassicurante, rifugiarsi nelle storie del passato – 8 Oscar al Miglior Film su 10 sono opere ambientate in epoche precedenti – la decade dal ’90 al ‘99 del cinema statunitense partorisce, sì, le sue gemme (Il silenzio degli innocenti, autentico nuovo paradigma del thriller, o Man on the moon, straordinaria variazione sul tema del biopic) ma non imprime un vero cambio di passo alla narrazione filmica.
È sul fronte degli effetti speciali, invece, che i nineties rappresentano per Hollywood un vero e proprio spartiacque. La prima delle tante pietre miliari del decennio la posa, manco a dirlo, un certo James Cameron con Terminator 2 (1991), primo film a fare un utilizzo massiccio di effetti visivi in CGI al posto degli animatronics. Continua il trend un altro giovanotto chiamato Steven Spielberg con Jurassic Park (1993), che letteralmente riporta in vita i dinosauri di epoca preistorica, non clonandoli dal DNA fossile ma creandoli dal nulla in digitale (e dire che la pellicola doveva essere girata in stop-motion, per fortuna i ragazzacci della Industrial Light & Magic mandarono un video di prova a Spielberg, facendolo sobbalzare sulla sedia).
Da quel momento in poi, durante tutti gli anni ’90, l’asticella della meraviglia digitale si alza costantemente (Independence day, 1996 e Titanic, 1997), allargando sempre di più il limite di quello che è fisicamente (im)possibile riprodurre sul grande schermo. Ma il limite, ancora una volta, viene superato.
È il marzo del 1999 e tempo 2 mesi uscirà il film più atteso della storia del cinema, quello Star Wars - Episodio I che conquisterà, sì, i botteghini di tutto il mondo, ma che al tempo stesso lascerà l’amaro in bocca alla critica e ai tanti fan di Guerre Stellari per la storia poco avvincente. È in questo periodo, per la precisione il 31 marzo, un momento nel quale i blockbuster non sono ancora usciti, che arriva nelle sale un po’ a sorpresa una strana pellicola cyberpunk diretta da una coppia di registi semisconosciuti, l’opera è visivamente impressionante (ci torneremo), il suo protagonista è Keanu Reeves, il suo nome è The Matrix. Da dove arriva?
A metà degli anni ‘90 i fratelli 30enni Larry e Andy Wachowski, avidi consumatori (nonché autori) di fumetti e sceneggiatori autodidatti, riescono a piazzare due sceneggiature noir ad altrettanti studios: la prima, Assassins, verrà letteralmente riscritta su ordine degli executive della Warner Bros, la seconda si trasformerà, invece, nel loro debutto come registi. Bound, questo il titolo del film, piace alla critica e convince la Warner ad affidare loro la regia del successivo script.
La nuova sceneggiatura è una rivisitazione del classico ‘viaggio dell’eroe’ di Joseph Campbell, condito con molti rimandi alle filosofie orientali, alla fantascienza di Philip K. Dick e agli anime giapponesi come Akira e Ghost in the shell. Suggestioni filosofiche, archetipi Junghiani e una dose massiccia di effetti speciali: un mix che spaventerebbe molti producer ma che invece conquista Joel Silver, produttore di Die Hard, L’ultimo boy scout e Arma letale.
La storia è quella di Neo, un giovane programmatore informatico che riceve una rivelazione sconvolgente: il mondo così come lo conosciamo è una immensa simulazione virtuale nella quale siamo attori inconsapevoli, in realtà addormentati e nutriti artificialmente dalle macchine che ci hanno schiavizzato e che ora ci usano come fonte di energia bioelettrica per continuare a funzionare. ‘Scollegato’ da un gruppo di ribelli, Neo (Keanu Reeves) si unisce a loro nella lotta per cercare di liberare l’umanità una volta per tutte, ma soprattutto scopre gradualmente una profezia che lo riguarda.
Il mondo è illusione e la realtà virtuale è un incubo: siamo anni luce distanti dall’ottimismo un po’ ingenuo di Ready Player One, che di Matrix è praticamente la versione PG-13, e contemporaneamente molti gradini sopra il cupo nichilismo di Strange Days: l’idea dei Wachowski è invece quella di costruire un grande spettacolo visivo che sembri un anime in versione live-action. E per metterlo in scena, i due registi ricorrono a un felice stratagemma: se il mondo di oggi è solo una simulazione, nulla vieta agli eroi del racconto – scoperto il codice di quella simulazione – di forzarne le ‘leggi fisiche’ per acquisire dei ‘superpoteri’ e acquisire un vantaggio sovrumano sui nemici.
Ecco quindi che, nel mondo di Matrix, i protagonisti Neo, Morpheus e Trinity – epigoni di Alice nel paese delle meraviglie – si muovono come supereroi, saltano in cima agli edifici, schivano le pallottole e lottano a mani nude come nelle migliori coreografie del cinema orientale. L’intro del film, con l’attrice Carrie Anne Moss che prima neutralizza e poi sfugge a un gruppo di poliziotti (in realtà ‘programmi sentinella’ di Matrix) sfidando le leggi della gravità, è emblematica, e non è un caso: girata per prima, serve ai Wachowski per convincere la Warner ad aumentare il budget del film per investire sugli effetti visivi. Suggestione visiva e potenza narrativa per loro sono inscindibili, la seconda non può compiersi senza la prima.
Arriviamo così al coronamento dell’idea iniziale: il complesso intreccio di Matrix, le sue componenti filosofiche e fantascientifiche necessitano di effetti speciali all’avanguardia per conquistare lo spettatore. Il più famoso dei quali – ideato dal supervisore agli effetti visivi John Gaeta - è la bullet-time camera: una struttura con una serie di fotocamere disposte intorno ai protagonisti che scattano sequenze velocissime di immagini dando l’illusione di una cinepresa che si muove circolarmente e mostra ogni angolazione del soggetto. Lo scontro aereo tra Neo e l’agente Smith, il calcio volante di Trinity, Neo che schiva le pallottole in slow-motion: sequenze impossibili da realizzare senza la bullet-time camera, scene che restano nella memoria, momenti che sono il marchio di fabbrica di un film dove realtà e simulazione volutamente si mischiano.
Le sorti della pellicola, lanciata dalla Warner Bros con una certa prudenza (a marzo, appunto, prima della frenesia estiva da box-office), sono note: costata 63 milioni di dollari, finisce per incassarne oltre 460. La critica la esalta e i registi sfornano ben 2 seguiti e un intero franchise di cui fanno parte anche una serie di corti animati (The Animatrix) e una collana di fumetti.
A 20 anni dalla sua uscita, Matrix è invecchiato benissimo: non a caso i fratelli Wachowski (nel frattempo diventati...sorelle, ma questa è un’altra storia) non ripeteranno più l’exploit. Troppo complicato indovinare nuovamente un incastro così felice: i due sequel, sempre visivamente straordinari, mancano di coesione e suggestione – così come pure alcuni scialbi epigoni, ad esempio Equilibrium (2001) - e confermano, se possibile, la grandezza del capostipite.
Avventura adrenalinica, compendio filosofico e spettacolare omaggio al cinema orientale: Matrix è tutto questo, ma ancora di più è il film che chiude trionfalmente la decade in cui gli effetti digitali conquistano Hollywood, spianando la strada alle grandi saghe e ai cinecomic, prodotti che nei decenni successivi costituiranno una vera e propria industria a sé e creeranno, stavolta sì, anche una vera e propria narrativa.