Parthenope, Gary Oldman racconta: “Per essere il poeta triste di Sorrentino ho attinto al mio passato di alcolista”
Parthenope, Paolo Sorrentino e Gary Oldman raccontano l’essenza di un film che non giudica mai
Quella di Parthenope non è un visione facile, perché come sempre Paolo Sorrentino è restio a dare risposte e preferisce contemplare molti misteri con il suo cinema: quelli della sua città, della vita e dell’invecchiare. Parthenope, come i film che l’hanno preceduta, vive della fascinazione delle grandi domande sulla vita che tutti ci poniamo, esplorate in un contesto unico al mondo come Napoli.
Dopo È stata la mano di Dio, il regista premio Oscar ci riporta nella sua città natale (e a Capri). La prospettiva partenopea è per la prima volta da un punto di vista femminile: quella di Parthenope, una giovane donna che per classe sociale, famiglia e luogo di nascita ha la possibilità rara di esplorare fino in fondo la propria libertà, forte di una bellezza prodigiosa, che “come la guerra, apre tutte le porte”.
A renderla consapevole di questa sua arma, che mai userà, è il personaggio dello scrittore John Cheever, interpreta da Gary Oldman. Un personaggio con cui l’interprete inglese condivide molto vissuto.
Di cosa parla davvero Parthenope e come s’intrecciano le vite dei personaggi con quelle degli interpreti che li incarnano? A seguire trovate il sunto della conferenza stampa di presentazione del film, appena svoltasi al Festival di Cannes, a cui sono intervenuti:
- Paolo Sorrentino - regista
- Celeste Dalla Porta - Parthenope
- Gary Oldman - John Cheever
- Daria d’Antonio - direttrice della fotografia
Paolo, chi è davvero Parthenope?
Sorrentino - Nella prima parte del mio film l’identità della protagonista coincide con la città di Napoli in cui è ambientato. Lei è stata battezzata con l’antico nome di Napoli, vive in città e condivide la stessa identità del luogo che la ospita: lei e Napoli sono due misteri che esploriamo.
Nella seconda della pellicola, tutto cambia. Parthenope diventa grande, non è più una ragazzina. A causa di alcuni avvenimenti e dell’invecchiare, il suo sguardo sulla vita e sulla città si fa più critico, disincantato.
Parlando in generale, definirei il personaggio di Celeste con tre aggettivi: libera, spontanea, non giudicante. La sua personalità l’ho scritta quasi fosse il riflesso della libertà della città in cui ho vissuto e sono cresciuto anche io.
Quindi il rapporto di Parthenope con la città è simile al tuo? Anche tu hai avuto questo allontanamento? Lo raccontavi già un po’ in È stata la mano di Dio…
Sorrentino - Sì. Uno scrittore una volta disse che Napoli è una città che vive e permane in una dimensione di vacanza perenne. Questo la rende molto indicata ad alcune fasi della vita, meno ad altre. Quando si diventq più grandi, quando si cresce, Napoli come città e atmosfera diventa meno incisiva, meno determinante sulla vita.
Io sono uno di quei tanti napoletani che hanno un rapporto altalenante con la propria città. Faccio seguire fasi di avvicinamento a quelle di fuga. Da giovane, come Parthenope, ne ho assorbito l’eccezionalità solo in parte, l’ho attraversata in maniera distretta. Quanto Napoli sia un posto unico l’ho capito anni dopo e mi sono avvicinato di nuovo soprattutto per il cinema, per raccontarla nei miei film.
Quindi, banalizzando un po’, in Parthenope c’è molto di te?
Sorrentino - Sento grande affinità con questa donna che studia antropologia, per me è è importante tutto il discorso che si fa sul “vedere”, l’essenza stessa di questa disciplina. Credo che io e lei facciamo un lavoro simile. Certo, io e la mia protagonista condividiamo un’affinità in generale, dalla vita, dallo shock della morte di un famigliare, ma in generale siamo colpiti dal trauma della vita stessa, del vivere.
Alcuni hanno accusato il tuo film di essere molto maschile nel raccontare la sua protagonista, di avere un male gaze.
Sorrentino - È il film di una donna in una condizione ottimale per essere libera, per famiglia, condizione economica e città in cui vive. Credo che Parthenope viva, con un certo privilegio, una battaglia per la libertà che ancora oggi tante donne vivono. Sul male gaze voglio che risponda la mia direttrice della fotografia.
Celeste, questo è il primo ruolo importante per te. Cosa ti rimane di questa esperienza sul set con Paolo?
Dalla Porta - Prima d’iniziare a girare questo film stavo vivendo ancora in una fase di spensieratezza, di post adolescenza. Il lavoro di attrice era ancora un sogno, il mondo del lavoro e i suoi impegni erano ancora lontani. Fare l’attrice era ancora un’immagine astratta, non parte del mio presente. Con questo film ho dovuto un po’ lasciarmi alle spalle una parte di me spensierata, quel che rimaneva del mio essere ragazzina.
Oldman - Il rapporto tra me e Celeste come persone e interpreti alla fine è molto simile a quello dei nostri personaggi. Penso di potermi tranquillamente definire un veterano in questo settore, faccio film da oltre 40 anni, lei invece è al primo ruolo importante. Lo sto vedendo succedere: stare nel film, stare qui a questa conferenza stampa…questo le farà perdere qualcosa, una purezza che Parthenope tenta di raccontare. D’altronde facciamo gli attori usando proprio questo materiale, quello che abbiamo e quello che ci viene tolto.
Gary, in questo film interpreti uno scrittore di successo che non ha molta considerazione della sua opera, mentre Parthenope lo ammira molto.
Oldman - Mi rivedo molto in questo lato di John Cheever. Come attore sono sempre iper critico rispetto al risultato del mio lavoro. Non riesco che ad approcciarmi così con quanto già girato e recitato. Per me se sei soddisfatto del tuo lavoro, se ti riguardi e pensi “beh, qui sono fantastico!”, è la fine, la morte. Affronto ogni ruolo con l’attitudine di quello che pensa che la miglior interpretazione sia la prossima, quella a venire.
Gary, in questo film interpreti lo scrittore John Cheever. Stupiscono i tanti punti in comuni con un tuo ruolo molto recente e apprezzato, quello del protagonista della serie TV Slow Horses: entrambi alcolizzati, entrambi depressi, entrambi che affrontano la vecchiaia. Su questo ultimo punto, a te come sta andando?
Oldman - Lì tra di voi è seduto il mio figlioccio, che ha 16 anni. Quando si è giovani, quando si hanno 16 anni, si desidera ardentemente averne 18, poi 21. Si desidera che la propria giovinezza sia finita, che passi in fretta. Tutti noi abbiamo un piede nel passato, un piede nel futuro e, non per essere volgare, pisciamo sul presente. Non viviamo, non riflettiamo sul presente.
Non c’è niente che possiamo fare rispetto all’invecchiare. Però posso dire che sono più a mio agio oggi di quanto ero giovane, anche grazie a una famiglia fantastica che mi sostiene, che è creativa.
Quando ero giovane, la mia vita è stata piena di dolore, dramma, caos. Non ho mai fatto mistero di avere avuto un rapporto molto difficile con l’alcol, poco tempo fa ho celebrato il mio 27esimo anno da astemio, dopo un periodo di alcolismo molto grave. Mia moglie ha trovato questo passaggio stupendo di Cheever in cui un personaggio allunga la mano verso il telefono per chiamare gli alcolisti anonimi, ma in realtà si allunga verso la bottiglia di alcol, qualsiasi tipo di super alcolico basta che sia alcolico.
Quando Paolo mi ha chiesto di interpretare questo personaggio, mi ha detto di volere una sorta di poeta ubriaco e triste, profondamente malinconico. Io sono stato quell’uomo, sapevo esattamente a cosa si riferisse.
Stiamo tutti invecchiando. La speranza è diventare più saggi, oltre che più vecchi.
Paolo, questo film è pieno di fascinazioni musicali italiane, napoletane, ma anche che vengono da molto lontano. Cosa non poteva mancare nella colonna sonora?
Sorrentino - In Parthenope sentirete molta musica jazz. Da anni ammiro il lavoro di questa musicista trombettista australiana di nome Nadje Noordhuis di cui volevo usare i pezzi in un mio film da tempo. Parthenope mi è sembrato il titolo giusto per farlo. Sul fronte italiano ho utilizzato molti pezzi classici del repertorio di Gino Paoli e Riccardo Cocciante.
Daria d’Antonio - Ritengo che questo non sia un film con un giudizio o una tesi, ma un lungometraggio tutto incentrato sulla ricerca. Per la prima volta attraverso un personaggio femminile Paolo cerca di esplorare qualcosa attraverso una prospettiva che non è sua, che non conosce. Io da donna non sento che penso che il mio sguardo sia femminile, che quello di Paolo sia maschile: l’importante è guardare alle cose, alla loro bellezza, non solo formale, ma vera e propria.