Peter Weir, dall’Attimo fuggente a The Truman Show, si racconta a Venezia: “arrivai a Hollywood grazie a Stanley Kubrick”

Il regista che ha messo l’Australia sulla mappa del cinema mondiale, ritiratosi da tempo dalle scene, riceve oggi il Leone d’Oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia.

Peter Weir dallAttimo fuggente a The Truman Show si racconta a Venezia arrivai a Hollywood grazie a Stanley Kubrick

È il regista che ha messo l’Australia sulla mappa del cinema internazionale grazie all’incredibile successo di critica di Picnic ad Hanging Rock. Il gentiluomo australiano che arrivò in Europa via nave è stato uno dei re di Hollywood a fine secolo, inanellando successi strepitosi come L’attimo fuggente, The Truman Show.

La sua carriera consta un numero limitatissimo di film “perché fare cinema è davvero faticoso” dice, portando di persona in platea il microfono a quanti hanno la mano alzata per fargli una domanda. Peter Weir non si pente di nulla: neanche di essersi lasciato alle spalle il cinema dopo aver girato poco più di una decina di film. Il tempo li ha resi in buona parte dei cult, ma lui rimane dell’idea che l’oggi sia il tempo dei giovani.

Per la Mostra, per l’amico direttore Alberto Barbera che ha fortemente voluto questo Leone d’Oro alla carriera, è disposto a raccontarsi in una masterclass attesissima. A seguire potete leggere la trascrizione tradotta dell’evento.

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Quando hai realizzato di amare il cinema, di essere un cinefilo?

Sono cresciuto prima della nascita della televisione, perciò la mia TV è stato il cinema. Era un appuntamento fisso nei miei sabato pomeriggio da ragazzino. Adoravo più di tutto i western, all’epoca erano popolarissimi. Quando arrivò la tv nel 1956 cambiò il panorama, ma continuai ad amare il cinema.

Come hai capito di volerlo fare il cinema?

Tutto è cominciato da una nave. Da giovanissimo decisi di andare in Europa, ma non avevo molti soldi e l’opzione migliore era navigare via nave. Per arrivare a destinazione dall’Australia ci volevano 5 settimane di navigazione, su una nave che ospitava 700 persone. L’attesa era lunga e, per passare il tempo, io e alcuni conoscenti decidemmo di provare. realizzare un film, una sorta di commedia basata su interviste fittizie, che durava qualcosa come sei ore.

Per una coincidenza incredibile, sul ponte della nave c’era un piccolo studio di registrazione, con una cinepresa e uno schermo. Quando chiesti all’equipaggio perché ci fosse a bordo quella strumentazione, mi dissero che era lì nel caso si dovesse abbandonare la nave: il capitano poteva registrare il messaggio e trasmetterlo sugli schermi presenti sull’imbarcazione. Invece trasmettemmo il nostro film.

All’arrivo a destinazione, sapevo di voler lavorare nell’intrattenimento.

Ci sono cineasti che scrivono sempre i propri film, altri che si occupano solo di adattamenti da altre fonti. Tu invece nella tua carriera hai fatto un po’ di tutto. Da dove arriva la tua ispirazione?

È un mistero anche per me, cosa mi porti a dire si o no al progetto, cosa mi ispiri. In genere le richieste che mi arrivavano dagli Stati Uniti mi suscitavano un no secco, un rifiuto istintivo. Col tempo però ho capito che quella è proprio la mia prima reazione a quasi tutto, tanto che il mio agente ben presto imparò a non riportare subito i miei no a chi mi aveva fatto un’offerta, a darmi il tempo di ripensarci.

Ci sono idee che inizialmente rifiuto, ma che continuano a tornarmi in mente, non mi lasciano in pace. Sono quelli i progetti a cui poi dico di sì. Non sono mai riuscito a capire però cosa renda un’idea in grado di tormentarmi. Per me però è un autentico mistero da dove venga quella fascinazione, quell’ispirazione.

Mi ricordo che per esempio con The Truman Show rimasi totalmente irretito, ma c’era uno scrittore di mezzo: la sceneggiatura era firmata da Andrew Niccol ed era assai più vicina al genere fantascientifico dell’idea che mi ero fatto io del film. Lo volevo davvero fare, ma ero consapevole che gli scrittori possono essere molto permalosi quando si mette mano al loro lavoro, quindi lo contattai e dissi “se faccio il film io mi mangerò, letteralmente, la tua storia. A te sta bene?”

Picnic ad Hanging Rock è stato il film che ti ha messo sulla mappa del cinema mondiale e con te l’Australia. Fino ad allora si era visto pochissimo di quella cinematografia.

Ricordo bene lo stacco tra la mia idea iniziale e il risultato che riuscii a ottenere. Prima di cominciare a girare, avevo un trailer della sceneggiatura nella mia testa. Mi capita spesso di vedere un “promo immaginario” mentale perché da piccolo sono cresciuto amando i trailer che vedevo al cinema. Questo “trailer mentale” era fatto d’immagini, di visioni, di suggestioni tratte da dipinti e illustrazioni di libri.

Il punto per me è tradurre quell’idea in immagini tangibili, poi però ci si scontra sempre con la mancanza di fondi: avevamo così pochi soldi allora, bisognava fare dei compromessi. Decisi che alcune scene dovevano essere perfette, senza compromessi e ci concentrammo su quelle. La scena del pic-nic per esepio: il mio direttore della fotografia mi disse che per farla come volevo potevamo girare solo per 1 ora al giorno. Gli disse che andava fatto così e quindi tornammo a quella location remota nella natura per sei giorni di fila, perché quella scena doveva essere bellissima. Feci compromessi altrove nel film.

Per chi volesse recuperare questo cult, segnaliamo che proprio per celebrare il Leone d'oro alla carriera a Weir, in queste ore IWONDERFULL ha annunciato di aver aggiunto alla sua library questo lungometraggio.

Gli anni spezzati non segue immediatamente Picnic ad Hanging Rock ma  condivide con quel film una profonda dimensione spirituale, potremmo dire.

Questo perché l’idea di quel film nacque mentre stavo andando a Londra per la prima mondiale di Picnic. Allora stavo già lavorando a The Wave, il mio film successivo, ma avevo la ferma intenzione di fare un film sulla prima guerra mondiale.

Andai sui luoghi della battaglia di Gallipoli, dove nel 1916 persero la vita migliaia di uomini del corpo di spedizione comprendente soldati dell'esercito australiano e neozelandese. Quella porzione di terra è una sorta di luogo di pellegrinaggio per gli australiani appassionati di storia o per chi ha perso un parente. È un luogo rimasto a quegli eventi sanguinosi: ci trovai ancora dei bossoli per terra. Ebbi un’impressione tangibile di essere osservato, mi dissi “saranno i soldati turchi”. Pian piano però mi convinsi che fossero i morti, i caduti che mi guardavano. Era un pensiero ridicolo, lo so, ma sentivo come se qualcuno mi dicesse “mostrami quello che puoi fare”.

La sera non riuscii a dormire, ero tormentato al ricordo quell’emozione così particolare. Cominciai a lavorare al film, che concepii come una sorta di memoriale, di sacrario di quei caduti.

In Un anno vissuto pericolosamente ci porti invece a esplorare l’Asia.

Bali e l’Asia per noi australiani sono vicine, ma rimangono comunque un altro mondo. Ricordo una citazione del libro da cui è tratto il film, in merito al sentimento di visitare l’Asia da stranieri: “è come essere di nuovo un bambino pieno di meraviglia, insicuro su come comportarsi”. Volevo catturare questo sentimento, ma anche affrontare la mia prima, vera storia d’amore su schermo. Mel Gibson faceva un vergine, io ero un vergine registicamente e girammo un bacio con il personaggio di Sigourney Weaver che, devo ammettere, era davvero brutto.

Per cercare di risolvere la situazione misi insieme alcuni dei migliori baci della storia del cinema. Mi accorsi che Hitchcock aveva una fotografia fantastica, notai che riprendendo sopra la spalla si otteneva la prospettiva di un voyeur più convincente rispetto a una ripresa di profilo. La scena però continua a non funzionare. Allora chiesi a Sigourney - spero mi perdoni - di baciare la mia mano, perché era l’unico modo per capire cosa non funzionava era capire come baciava. Lei rise e quella risata sciolse la tensione e risolse la situazione.

Sigourney allora era giovanissima, Mel Gibson invece era affermato. Da regista come ti rapportavi agli attori sul set?

Fare cinema non è un questione di ego. Certo io sono il leader sul set, ma il mio lavoro è rendere le performance degli interpreti più potenti, non imporre il mio volere. Ricordo che nel  1982 incontrai Kubrick nel Regno Unito e ebbi una lunga conversazione con lui. Lui mi disse, o forse lo disse in una delle rare interviste che concedeva: “quello che conta sul set è il potere che hai dietro le quinte, dietro l’immagine” e sono del tutto d’accordo.

Fu Kubrick che diede il via alla catena di eventi che ti portò negli Stati Uniti giusto?

Sì, finii per girare Il testimone con Harrison Ford, ma inizialmente venni raccomandato da Kubrick, che aveva amato Picnic ad Hanging Rock, per fare l’adattamento di Salem’s Lot di Stephen King, a cui si era interessato all’epoca di Shining.

Andai a parlare con i pezzi grossi degli studios e mi offrirono questa sceneggiatura, assicurandomi già la presenza di Harrison Ford. Io dovevo dire solo sì, ma insistetti che volevo “vendergli la storia”. Loro erano stupiti, mi stavano offrendo loro il progetto, ma mi diedero comunque 10 minuti. Io cominciai a raccontare dalla prima scena il film, come volevo girarlo, che senso avessero le mie scelte e nessuno mi fermò. Andai avanti a lungo, raccontai tutto il film. Harrison alla fine mi disse “avevi ragione, ora lo capisco meglio”

Alla fine divenne quasi una tradizione, lo feci anche per Robin Williams con “L’attimo fuggente”.

Con Kubrick condividi molte cose, tra cui un uso molto importante della musica, che diventa quasi una seconda narrazione.

Una volta chiesi a Kubrick se gli sarebbe piaciuto comporre le musiche per i suoi film se ne fosse stato in grado e lui mi disse “Dio, assolutamente sì!”. Gli dissi che poteva provarci, era bravo a fare tutto, anche il caffè: “fai un caffè eccellente” e lui disse “sì ma la musica è un’altra cosa”.

Io ascolto la musica tutto il tempo, dentro e fuori la lavoro. La ascolto in sottofondo in macchina, a casa, finché non va oltre le parole diventa un tappeto subconscio.

Maurice Jarre, che ha musicato alcuni dei miei film, capiva che la musica doveva avere la capacità di parlare al subsconscio anche quando non notata. Per questo amavo molto lavorare con lui.

Nei tuoi film c’è sempre un profondo senso di controllo, di economia. Sai quando finirli, sai quando tagliare: non c’è mai qualcosa di troppo.

Le persone pagano soldi per vedere i film, perciò voglio che i miei film valgano lo sforzo economico. Non è come in Europa, non c’è una cultura artistica, la tradizione del bello. Io vengo da un paese dall’orizzonte colonialista, in cui la popolazione è prevalentemente proletaria: quando chiedi a queste persone i loro soldi che si sono sono sudati così duramente, deve essere per qualcosa di assolutamente all’altezza.

Al montaggio taglio tutto il possibile e di più. Di solito dico al montatore di mettere insieme il film come se fosse suo, mi dò alla macchina per un paio di settimane. Al ritorno lo guardo e lo riguardo, spesso senza audio, seguendo il racconto dell’immagine. A ogni ripetizione, a ogni sottolineatura, a ogni passaggio non necessario, taglio.

Non c’è speranza di vedere qualche tuo nuovo progetto?

No, ormai da anni mi sono ritirato. Girare film è davvero faticoso, per il corpo e lo spirito: sento di aver fatto quello che mi competeva, ora è il turno di una nuova generazione. Quando qualche aspirante regista mi chiede consiglio, la mia risposta è sempre la stessa: lascia perdere la cinepresa.

La prima vera scuola di narrazione è la scrittura. Scrivere, magari a mano, a partire anche da un singolo evento della giornata. A fare cinema s’impara scrivendo.

Nella tua carriera hai detto tanti no. C’è qualche film che rimpiangi di non aver fatto?

Se dico no a un film, non rimpiango mai di non averlo fatto. Dirigere è faticosissimo. Anzi, mi è capitato di essere contento quando qualche progetto da me rifiutato è stato fatto da qualcun’altro e ne è venuto fuori un buon film.