Queer, perché Daniel Craig ha detto sì al dramma gay di Luca Guadagnino: “volevo lavorare con lui da 20 anni”
Luca Guadagnino voleva portare su schermo Queer di William S. Burroughs da quando aveva 17 anni e ha rischiato di non avere al suo fianco Daniel Craig: “non pensavo mi avrebbe detto sì”.
Luca Guadagnino entra nella sala dove si svolge la conferenza stampa di Queer emanando serenità e fiducia in sé. Ha perso 15 chilogrammi grazie a una dieta che segue scrupolosamente, è circondato da collaboratori con che ne lodano il metodo di lavoro e affiancato da una delle star cinematografiche più note a livello globale, Daniel Craig. Un attore affermato che per lavorare con il regista italiano, conosciuto 20 anni fa, si prende un rischio enorme: quello di interpretare un uomo omosessuale allo sbando, alla ricerca di rapporti occasionali (esplicitamente mostrati nel film) e mai timido nell’affogare la sua solitudine in ogni tipo di droga.
Queer è il racconto autobiografico degli anni distruttivi vissuti da William S. Burroughs a Città del Messico. Un romanzo che il suo stesso scrittore ha esitato a pubblicare: troppo personale, troppo intimo, sicuramente scandaloso. Anni dopo, un 17enne palermitano lo legge e ne rimane trasfigurato. Ci vorranno altri 3 decenni perché riesca a coronare il sogno di realizzare un film da quel romanzo che è una grande storia d’amore e di solitudine.
Ora è al Lido, con il suo cast stellare, affiancato da un ex James Bond che ha accettato subito la sua sfida, il suo film scandaloso. Che Guadagnino, da buon pragmatico, nemmeno voleva proporgli, sicuro che avrebbe detto no.
Ecco cosa ha raccontato il cast di Queer durante la conferenza stampa di presentazione del film.
Luca Guadagnino e Daniel Craig raccontano Queer
Perché hai scelto questo romanzo di William S. Burroughs da portare su grande schermo?
Quando lessi questo libro ero un 17enne megalomane che viveva a Palermo e s’immaginava di costruire mondi con il cinema. Il titolo faceva riferimento all’essere diversi e toccò la mia immaginazione. Sono rimasto colpito dalla magnitudo di un libro così sottile e breve: c’era l’avventura, la completa mancanza di giudizio (soprattutto in Lee) rispetto al comportamento umano. La sua lettura mi ha trasformato per sempre. Volevo essere del tutto fedele al me ragazzino che lo lesse nel trasformarlo, da adulto, in un film. Quindi quando l’ho adattato mi sono concentrato nel chiedermi: "chi siamo quando siamo soli in un letto e chi o cosa cerchiamo, quando proviamo qualcosa per gli altri"?
Justin, tu torni a lavorare con Luca dopo Challengers, adattando un romanzo di Burroughs. Quali sono state le sfide che hai affrontato in questa seconda collaborazione?
Justin Kuritzkes - La mia collaborazione con Luca è iniziata con Challengers e lui mi ha subito parlato di questo romanzo. Un giorno mi ha messo in mano il romanzo mentre eravamo sul set e mi ha detto: “leggilo stanotte e fammi sapere se ti va di scrivere una sceneggiatura per me”, mettendo in chiaro quanto per lui fosse un testo e un progetto importante, che gli stava a cuore. Dopo averlo letto gli ho detto subito di sì, anche se non avevo idea di come adattarlo. Ovviamente conoscevo già Burroughs , avevo letto Il pasto nudo, avevo un’idea molto precisa di cosa aspettarmi dalla scrittura di questo autore. Invece Queer è stato una sorpresa, dato che è una storia d’amore piuttosto diretta. La sfida è stata mantenere la centralità della storia d’amore senza perdere gli altri elementi, inserendo la psicologia dell’autore e quella di Eugene e William, che dà il ritmo al racconto come una sorta di tamburo.
Burroughs in un certo senso è a sua volta un personaggio e non solo attraverso il suo alter ego interpretato da Daniel.
Justin Kuritzkes - In fase di adattamento ci siamo chiesti se integrare pezzi della biografia del regista al romanzo, per rendere più chiaro ciò che è accennato, soffuso all’interno. Per esempio la mia battuta preferita del film è “sometimes I think they don’t like us” (a volte penso che non gli piacciamo), che Lee dice a Joe riferendosi ai messicani che vedono la loro città invasa da questi statunitensi sbandati. La frase viene da un altra opera dell’autore.
Luca Guadagnino - Prima di cominciare il film ci siamo molto interrogati sul pensiero di Burroughs. Tra una pallina da tennis e l’altra sul set di Challengers ci siamo confrontati tantissimo sul perché il libro non è stato completato, perché s’interrompa. Abbiamo interpellato in merito anche Oliver Harris, un grande studioso di questo autore. Io credo che dipenda dal fatto che c’era una profonda modestia nel suo autore. Queer toccava così vicino il suo essere che non è riuscito a finirlo, ad andare fino in fondo. Lo mise da parte per decenni, venne convinto solo molto più tardi a pubblicarlo.
Volevamo creare non solo l’adattamento di Queer, ma portare su schermo l’immaginario letterario dell’autore che è così forte che si può usare l’aggettivo “burroughsiano”. Sarebbe stato noioso creare un film storico ambientato in quell’epoca, noi volevamo fare un film di Burroughs. Ci sono moltissimi riferimenti ad altri romanzi dell’autore, volevamo portare su schermo non solo il suo alter ego ma anche il suo canone. A questo punto della lavorazione ho pensato che il canone dei film di Powell & Pressburger era quello a cui pensare e fare riferimento, che per me è molto importante e mi ha influenzato tantissimo. Hanno realizzato molti film sull’eroismo e l’etica inglese creando mondi fantastici, così cesellati! La loro texture narrativa nel fantastico e la loro posizione intellettuale erano un punto di partenza fantastico giusto per il lavoro che stavamo per fare: per me ma anche per chi lavorava al suono, ai costumi, ai set.
Uno dei cambiamenti riguarda il personaggio di Cotter, che qui diventa una donna.
Luca Guadagnino - Sì, nel romanzo il personaggio è un classico uomo di scienza tutto d’un pezzo, io invece l’ho messo nelle mani della fantastica Lesley Manville.
Lesley Manville - Alle volte è meglio non raccontare troppo come è andata sul set perché si perde un po’ la magia. Di Queer posso dire che è stata un’esperienza incredibile e che per prepararmi, non avendo mai preso sostanze allucinogene, ho consultato parecchi video che seguono persone che hanno assunto sostanze psicotrope, documentandone le reazioni. Per creare personaggi come questo serve tutto, non te ne puoi stare a casa a rimuginare. Servono i costumi, il make up, le parrucche, essere sul set.
Come è stato girare questo film in questo momento della tua carriera di regista?
Luca Guadagnino - Girare questo film per me è stato straordinariamente semplice e diretto. Certo creare questa Città del Messico che non sicuramente la vera città ma quella che nasce nella mente del protagonista ha richiesto molto impegno, ma devo dire che è stata una lavorazione serena.
Perché hai scelto un ex James Bond per questo ruolo?
Luca Guadagnino - Sono da lunghissimo tempo un grande ammiratore di Daniel Craig, ma essendo un grande pragmatico ho soffocato il mio desiderio lavorare con lui. Devi fare i film, non sognare ad occhi aperti. Quando ho cominciato a lavorare a Queer un collaboratore mi ha detto “e se chiedessimo a Daniel d'interpretare Lee?” e io gli ho risposto “ma non dirà mai di sì”, ma mi hanno convinto a provarci. Daniel ha risposto subito sì, al 100%, senza condizioni. È davvero un grandissimo attore, è un privilegio lavorare con lui. È generosissimo nel suo approccio, è capace di essere davvero mortale e fragile sul grande schermo e pochi attori consentono agli altri di vedere così a fondo questo loro lato.
Daniel Craig - Ho detto sì al progetto perché sin da quando ho incontrato per la prima volta Luca 20 anni fa ho capito di voler lavorare con lui, ce lo eravamo già detti all’epoca e con Queer ho avuto la possibilità di farlo. Ho pensato che se avessi visto questo film senza farne parte, al cinema, probabilmente mi sarei rammaricato perché avrei voluto farlo io. È il tipo di film che voglio vedereda spettatore, di cui voglio fare parte da attore, complesso ma incredibilmente accessibile. Di Luca mi piace che pur avendo delle idee sue molto forti e radicate, ascolta l’opinione di tutti, è interessato ai punti di vista differenti nella stanza.
È inevitabile parlare delle scene erotiche di Queer.
Daniel Craig - Nel film c’è una coreografia che è davvero tanto importante per il suo sviluppo. Drew Starkey ed io ci siamo allenati per mesi per arrivare preparati sul set. Trovo che la danza, che è molto fisica come disciplina, sia stata una buona palestra d’intimità, ci ha aiutato a rompere il ghiaccio. Lo ha fatto molto più delle scene esplicite in sé, perché non c’è davvero nulla di erotico in come si girano le scene d’amore sul set. Non è facile essere commossi, veri, coinvolti in una stanza piena di persone che ti guardano.
Drew Starkey - Credo che io Daniel siamo stati molto aiutati dall’aver iniziato a provare molto, molto in anticipo rispetto alle riprese e non mi riferisco solo alle scene d’intimità. Questo ci ha permesso di creare una relazione, di provare cose nuove con il coreografo. Quando volteggi su una pista da ballo con una persona che hai conosciuto appena due giorni prima…credo sia un buon modo di imparare a conoscere qualcuno (ride). Luca poi è un regista molto abile nel creare lo spazio attorno agli interpreti affinché questo succeda. Io poi non sono un ballerino, Daniel men che meno quindi…ci serviva tempo. (ride)
Queer è anche un film sulla dipendenza, in cui le droghe giocano un ruolo centrale.
Luca Guadagnino - Sin da giovanissimo sono rimasto ben lontano dalle dipendenze. Non ho mai fumato una sigaretta in vita mia, non mi sono mai fatto di droghe, di recente mi sono messo a dieta e 15 chilogrammi quindi posso dire di essere molto rigido rispetto alle mie dipendenze. Per quanto riguarda l’amore, posso contare sulle dita di due mani gli amanti che ho avuto finora. Oggi mi sento molto onesto (ride). Quello che mi piace è vedere le persone e non giudicarle, mettendo al centro qualcuno in una situazione molto difficile senza condannarlo. Anzi amo come i due protagonisti lavorino al loro rapporto che nasce e cresce nel momento in cui William sta annegando nelle sue dipendenze. La loro reazione è profondamente umana: uno s’inoltra ancora di più nella dipendenza, l’altro si dissocia. Credo che sia la missione di un regista: trovare l’umanità sia nei luoghi più oscuri sia in quelli più luminosi delle persone.
In Queer i costumi sono curati da J.W. Anderson. Jonathan, è la tua seconda collaborazione con Luca.
Luca Guadagnino - Prima che Jonathan risponda voglio dire che non c’è niente che non farei con lui…e lascio a voi la possibilità di interpretare questa frase come preferite (ride).
Jonathan - Adoro lavorare con Luca perché ti dà un grande grado di libertà creativa. Dei costumi di Queer voglio sopratutto sottolineare come siano tutti originali pezzi d’epoca. Per questo motivo Daniel doveva stare attento a non versarsi addosso il caffè, perché sono pezzi di grande valore, delicati.
Luca Guadagnino - Jonathan ha fatto un lavoro incredibile per recuperare tutti questi vestiti d’epoca, ci siamo andati così vicino che alcuni dei completi indossati da Daniel potrebbero essere identici a quelli che Burroughs indossava all’epoca. Un altro dettaglio a cui abbiamo fatto attenzione è la translucenza, che è una qualità visiva molto citata nel libro per raccontare il rapporto tra Lee e Eugene. Volevamo rimanere fedeli a questo tratto anche con i costumi, cercando quel tipo di texture. Non era una questione estetica, ma di significato e senso rispetto alla storia.
Lesley Manville - Prima di lavorare a questo film non avevo mai incontrato Jonathan. Ci siamo visti a Roma e lui mi ha mostrato un’incredibile salopette anni ’70 con degli strani fiori sopra e un paio di mutandoni…e la dottoressa Cutter aveva il guardaroba pronto.