Speciale Stanley Kubrick
Stanley Kubrick: 20 anni senza un artista.
Il 7 marzo del 1999, ci lasciava Stanley Kubrick.
I titoli, i servizi sui telegiornali di quella giornata si concentrarono su un singolo aspetto legato a questo importante lutto nella storia del cinema: Kubrick non avrebbe mai visto il 2001. Il regista nonché creatore degli effetti speciali (che gli valsero l'unico Premio Oscar della sua carriera) di 2001: Odissea nello spazio non avrebbe mai visto se quel futuro da lui ipotizzato (assieme allo scrittore Arthur C. Clarke) si sarebbe mai realizzato.
Il futuro, avrebbe fatto (purtroppo) a meno del suo prezioso punto di vista.
Ed è del resto 2001: Odissea nello spazio un buon punto di partenza per analizzare la parabola di questo genio del cinema, ebreo newyorchese trapiantato (sin dai primi anni '60) in Inghilterra alla ricerca di quell'isolamento e di quella libertà creativa che il cinema di Hollywood non gli avrebbe mai garantito.
Sì, perché 2001: Odissea nello spazio è lo scatto in avanti nella poetica di Kubrick, la scelta stilistica che va oltre un genere e va oltre un singolo film. 2001: Odissea nello spazio è più di un film (non è un propriamente una pellicola di fantascienza, ma più un'immersione filosofica in un mondo e in problematiche reali che ci sfuggono in tempi così caotici e frenetici) come Stanley Kubrick è stato molto più di un regista di cinema.
Kubrick è stato probabilmente il più grande artista romantico del '900. E con romantico si intende quella storia lì, il romanticismo. Si intende Beethoven, Victor Hugo, si intende il Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich. Una sensibilità che ha deciso di mettere al servizio il suo ingegno all'arte della modernità in tutti i sensi: la settima, il cinema.
L'arte che ha tra l'altro l'occasione di portarti letteralmente verso nuovi mondi. E di combinare gli altri elementi delle varie arti (come la musica, la fotografia, il teatro) in una singola opera. Questo è stato Kubrick. Un fotografo divenuto famoso in tutti gli Stati Uniti d'America attraverso uno scatto, una fotografia scattata il giorno della morte del presidente Roosevelt, con un edicolante che piange mentre l'edicola attorno a se recita il triste annuncio.
Da quella fotografia si spalanca la porta del cinema. Del cinema puro. Che poi diverrà altro, diverrà contaminazione, diventerà arte e diventerà impossibilità di classificazione. I primi film di Kubrick sono cinema puro: dopo vari documentari ed alcuni corti, realizza il trittico Paura e desiderio, Il bacio dell'assassino e Rapina a mano armata.
Film in bianco e nero, Frank Silvera come attore feticcio, il sodale Gerald Fried che si occupa della colonna sonora. Se escludiamo il primissimo Paura e desiderio (che Kubrick per anni fece scomparire e che fu proposto nelle sale soltanto nel 2013, forse proprio in quanto il regista la vedeva come pellicola anomala di fronte ad un'evoluzione a suo modo lineare del Kubrick come autore di cinema) possiamo definire i suoi primi film come splendide opere in linea con le mode del momento.
Gangster, rapine agli ippodromi, colpi di scena e a tratti qualche contaminazione (il vetro della macchina da presa che si rompe ne Il bacio dell'assassino). Il tutto in un contesto urbano, in cui narra a suo modo la vita delle metropoli americane e dove per girare non si esitava a lasciare qualche mazzetta al vigile urbano di turno, essendo la produzione sprovvista dei necessari permessi.
E' la fase del rodaggio, verso il cinema e i grandi divi. Kubrick conosce Kirk Douglas. Realizza con lui il capolavoro antimilitarista Orizzonti di gloria, in cui uomini nelle trincee combattano nemici immaginari e mai visibili sul grande schermo.
Perché la guerra è dentro di noi.
Douglas è ben disposto nei confronti del 29enne regista tanto che nel 1960 quando sta producendo il suo Spartacus licenzia il mestierante di lusso Anthony Mann (che però aveva riempito di carrellate, come in Orizzonti di gloria, i primi minuti del film sullo schiavo che si ribellò ai romani) ed affida la regia proprio a Kubrick.
E' un film del tutto anomalo per il regista: un cast stellare, Laurence Olivier che interpreta Marco Licinio Crasso e Peter Ustinov che gigioneggia (e forse trama) contro Douglas. Addirittura vi è una premiere londinese, in cui un timido ed impacciato Kubrick stringe la mano alla regina Elisbetta II di Inghilterra. Ma è un passo necessario verso una forma di autonomia, verso il raggiungimento di una nomea che gli consenta di essere veramente libero. Libero e solo con la sua idea di cinema.
Lolita è forse il primo banco di prova. L'impianto è sempre quello della Vecchia Hollywood, la storia è la trasposizione di un romanzo di successo sceneggiato dallo stesso Nabokov ed il cast e di assoluto livello. Ma c'è qualcosa di diverso in questo film (aspetto che spinge artisti come Lynch ad amarlo alla folia). Si sente la volontà di lanciare un messaggio che vada oltre la storia narrata. Si sente che dietro quella storia di apparente Eros, in realtà si nasconde la forza di Thanatos.
Kubrick si completa ulteriormente l'anno dopo, sempre con Peter Sellers a suo fianco (vero e proprio attore feticcio del suo cinema assieme a Douglas, Sterling Hayden e Frank Silvera) e mette ufficialmente in scena le sue paure con Il dottor Stranamore: ovvero come imparai a non preoccuparmi ed amare la bomba. Kubrick ci dice platealmente: ho paura della bomba atomica, ho paura dei politici, ho paura dell'istinto dell'uomo.
Non ho fiducia. Non sono felice.
Sotto una patina cinematografica ed artistica (il Sellers trasformista che interpreta tre parti diverse) in realtà emerge un credo politico a tutti gli effetti. Che si fa cinema, che si fa sensibilità. Da quel momento in poi saltano gli schemi, scatta il controllo, scatta la voglia di opere assolute.
Arriva appunto 2001: Odissea nello spazio che risulta essere un mezzo.
Un mezzo filmico per esporre le idee dell'autore nel campo dell'evoluzione umana, dei rapporti sociali e su quale destino può avere l'universo rispetto alle sfide della tecnologia e dello sviluppo industriale.
Tutto il resto non può che essere conseguente: Arancia meccanica e il genere grottesco che si fa distopico, con l'Inghilterra in mano ad una forma di autoritarismo parafascista. Poi tocca alla perfezione stilistica e le dinamiche cialtrone di Barry Lyndon, con un'idea di cinema volutamente barocca ed antiquata nel periodo in cui negli Usa governavano i giovanotti scortesi della Nuova Hollywood.
E poi Shining, l'horror stilisticamente perfetto che però anche una riflessione sul passato, sulla fisionomia del tempo e (volendo) sul potenziale dei finali aperti.
Tutto il resto è spazio, tempo e sopratutto riflessione.
Dopo sette anni realizza un film (Full metal jacket) che pur inserendosi nel prolifico filone sulla guerra del Vietnam fornisce nuovi ed innegabili contributi di innovazione: la separazione della pellicola in atti, la limitazione della prima parte del film all'addestramento dei soldati. Poi il massacro. E nulla più.
Eyes Wide Shut è infine una forma di testamento che non sapremo mai quanto è stato effettivamente voluto.
Un film uscito postumo, non montato dal regista. In cui riprendendo il romanzo Doppio sogno di Schnitzler, Kubrick ci lancia sopratutto un messaggio: guardate chi sono, guardate chi ero. E' bello guardare Eyes wide shut, e gli chicchissimi e patinati Tom Cruise e Nicole Kidman come se fossero a loro modo un'evoluzione della toga di Laurence Olivier, delle maschere da fuggitivo di Sterling Hayden, del Presidente degli Stati Uniti Peter Sellers che sceglie come modello di imitazione il senatore democratico Adlai Stevenson.
Tutto questo ero io, fino a questo vi ho condotto, sembra dirci il regista. E per farlo, per qualche anno, addirittura mi sono dovuto mettere a fare il cinema. Prima dell'arte, prima del controllo, prima della mia voglia di assoluto.
Non il più grande, non il migliore.
Semplicemente: unico.