The Beach Boys è il doc definitivo sulla band? Secondo Mike Love e Al Jardine, ci va molto vicino

Mike love e Al Jardine raccontano cosa hanno provato nel ripercorrere la storia musicale e umana dei The Beach Boys insieme ai registi Frank Marshall e Thom Zimny.

di Elisa Giudici

Ascoltare Mike Love e Al Jardine parlare della storia dei Beach Boys significa inevitabilmente provare un po’ d’invidia. Non per la loro vecchiaia serena - il doc si sofferma anche sulla sfortune finanziarie di un gruppo a cui è stato sottratto il controllo del proprio catalogo poco prima della seconda ondata di popolarità - e nemmeno per la fama. Per come invece affrontano il ricordo della loro storia con serenità, di petto, senza rimorsi e senza rancori.

In The Beach Boys c’è tutto, o quasi: gli alti e i bassi di un gruppo che era come una famiglia e, come ogni nucleo familiare, ha vissuto tensioni e rotture, anche drammatiche. Realizzato da due registi fan storici del gruppo - lo "specialista di Springsteen" Thom Zimny e Frank Marshall - questo film documentario si focalizza sull’armonia tra i numerosi elementi che hanno sancito il successo della band nelle sue varie ere. Non più la dicotomia tra genio e band, ma un tutto armonico, in cui la sottrazione di un singolo elemento rende impossibile ricreare il sound, l’atmosfera unica di quel capitolo della storia musicale già entrato nel canone musicale statunitense.

È una prospettiva molto diversa da opere precedenti che hanno raccontato il gruppo. I registi di The Beach Boys e due membri del gruppo ci hanno spiegato perché è stato scelto questo approccio.

Intervengono:

  • Mike Love
  • Al Jardine
  • Thom Zimny - regista
  • Frank Marshall - regista, produttore

Al, Mike, voi avete vissuto in prima persona come musicisti e uomini la storia dei Beach Boys, ne fate ancora parte. Come è stato ripercorrere i ricordi del vostro lavoro all’interno della band in modo organico, sin dagli esordi?

Al - A distanza di decenni conservo una memoria molto vivida di quei giorni, specialmente di quei tour infiniti che abbiamo affrontato. Ripercorrere la nostra storia per il documentario è stato bello, specie quando abbiamo rivissuto il lavoro fatto per coinvolgere nella nostra musica generazioni successive alla prima. In un attimo siamo passati da essere una band sopravvissuta fino agli anni ’80 a una band i cui membri hanno 80 anni.

Mike - Non ho avuto alcun timore ad acconsentire a partecipare a questo progetto, al documentario. Così come non ne abbi all’epoca in cui mi chiesero di entrare a far parte dei Beach Boys. Trovo particolarmente azzeccato il fatto che questo doc esca in tempo per celebrare i 50 anni di Endless Summer. Quel greatest hits che è uscito a nostra insaputa, di cui non abbiamo goduto dei proventi, ma anche un album che ci ha salvato e che ha portato una nuova ondata di apprezzamento per il lavoro che avevamo creato negli anni.

Perché fare proprio ora un film documentario sulla storia dei Beach Boys? Quale pensavi fosse lo spunto più interessante?

Frank - I Beach Boys sono stati il biglietto da visita del sogno californiano nei primi anni ’60, un sogno che io ho vissuto in prima persona, da adolescente. Io infatti sono cresciuto nella stessa zona dove il gruppo si è formato e ha cominciato a suonare, la California che raccontano i loro primi EP. Il doc racconta come loro non fossero in realtà dei “beach boys”, mentre al contrario io ero un ragazzo amante del surf che stava in spiaggia gran parte del tempo. Mi ricordo anche il prima: all’epoca i surfisti in spiaggia e nei locali sentivano musica strumentale, senza testi. Le prime canzoni dei Beach Boys hanno cambiato tutto. Hanno avuto un impatto enorme sulla cultura statunitense, perciò per me ogni momento è buono per raccontare il cambiamento che hanno portato a livello musicale e non.

Come avete trovato i materiali mai visti, le registrazioni delle sessioni in cui gli album sono stati creati, i filmati e le foto inedite?

Frank -  È uno degli aspetti che amo dei documentari. Alla fine è una caccia al tesoro in cui, a ogni passo, non sai mai se e dove troverai la pepita. Alle volte trovi una scatola di scarpe con dei vecchi filmini in 8mm e realizzi che sono rarissime riprese di loro sulla spiaggia. Ognuno dei Beach Boys e del loro entourage ha aiuto la nostra ricerca. Finisce sempre che da soffitte, cantini, amici e scatoloni spuntano foto, video, materiale che nessuno ha mai visto e che nemmeno i diretti interessati ricordano, alle volte.

Stavolta l’emozione è stata forte perché, come ti dicevo, ero un loro fan già all’epoca. È stato affascinante per me capire attraverso i materiali che abbiamo trovato - per esempio le registrazioni audio delle sessioni in studio - come loro lavorassero alla musica.

Tom, cosa ha significato per te essere parte di questo progetto? Vedendo il documentario si capisce quanto tu sia un conoscitore ed estimatore dei Beach Boys.

Tom Zimmy - Sono molto onorato di fare il parto di questo progetto. Quella che raccontiamo in questo documentario è una band grandiosa che vale la pena di conoscere anche se non di fa parte della generazione che è cresciuta assieme a queste canzoni. Come Frank, anche io sono cresciuto fisicamente e musicalmente ascoltando e riascoltando i dischi dei Beach Boys.

Cosa dà in più questo documentario rispetto alle opere che finora hanno raccontato la storia incredibile di questo gruppo?

Frank - Questo documentario si concentra molto sul sottolineare come i Beach Boys siano la somma di tutte le loro parti, parti che cambiano nel tempo, ma che sono necessarie al loro funzionamento. In un dato momento, se si toglie l’apporto di anche un singolo membro, non sono più i Beach Boys.

Mike -  Per noi erano ovviamente importanti armonia e spirito del gruppo, ma un elemento chiave era il blend, l’amalgama dei vari element.

Quando ci serviva un nuovo membro, la priorità per noi era trovare una voce e una persona il cui carattere potesse amalgamarsi con le nostre voci e il nostro modo di essere. Sai, c’è un boxset con solo le nostre voci di Pet Sound, ripulite dalla traccia sonora. Lì il blend è qualcosa d’insuperabile: si sente che lavoro incredibile che avevamo fatto.

Tom, perché pensi che ci sia ancora tutto questo interesse per questo gruppo?

Tom - Credo dipenda dall’altissima qualità della loro musica, che è davvero senza tempo, non invecchia e mantiene la potenza delle emozioni che racconta inalterata. Inoltre i Beach Boys sono una band che richiede molto tempo per essere esplorata a fondo e apprezzata al meglio: ci sono tante personalità da capire, così tanti capitoli differenti scoprire nella loro produzione.

C’è stato un momento del documentario che vi ha emozionato più di altri?

Mike - Le riprese finali a Paradise Cove con gli altri. Ritrovarci lì dove avevamo scattato la fotografia per la copertina del nostro primo EP, tutti insieme, a cantare a cappella i nostri brani, accompagnati da una chitarra. È stato un momento davvero emozionante e commovente. Dopo momenti anche difficili, abbiamo sentito il rispetto e l’amore che proviamo reciprocamente tra di noi, come gruppo.

Credo che il bello di canzoni come Good Vibrations stia tutto lì: nel catturare le emozioni positive della vita, che tornano a sostenerti quando, come in quest’epoca, il riverbero negativo è molto forte. Le cose sono cambiate anche per noi: due membri del gruppo non ci sono più, Brian stesso non passa un bel momento. Tuttavia ripensare alla nostra storia non mi ha reso triste. Mi ha reso orgoglioso della gioia che abbiamo portato e portiamo.

Ci sono momenti della storia dei Beach Boys che sono difficili, a livello emotivo, da rivivere?

Al - Non è difficile guardare indietro ai tuoi ricordi, specie se hai la musica a farti da guida lungo il cammino. Gli inizi non sono stati sempre semplici. Mi ricordo i tempi in cui dovevamo stringerci tutti intorno al solo microfono che i tecnici avevano preparato, nonostante a cantare armonizzando fossimo in cinque persone. Mi ricordo all’epoca la speranza la positività che avevamo verso il futuro. Nei ricordi, anche in quelli dei passaggi più complicati, io ritrovo soprattutto quella positività, quindi no, non è doloroso riviverli.

Nel documentario si parla molto del fatto che armonizzaste tutti i brani, fino a raggiungere un livello davvero impareggiabile di esecuzione. Non deve essere stato facile.

Al - Una volta imparato non era troppo difficile, anche perché quando arrivavamo in studio trovavamo già Brian che aveva fatto gran parte del lavoro di arrangiamento. Si sedeva al piano, assegnava a ciascuno di noi una nota e da lì in poi bisognava ricordare le proprie parti e la propria nota. La parte difficile era già passata, bisognava solo fare attenzione a non fare errori e a evitare di sovrapporsi.

Il che non vuol dire che non lavorassimo molto, anzi. Mi ricordo ancora quando abbiamo registrato la cover del brano Their Hearts Were Full of Spring. Brian adorava quella canzone, l’aveva ricopiata nota per nota ci aveva chiesto di impararla a memoria con il suo arrangiamento. Era un pezzo davvero molto, molto complesso, la cui difficoltà lui aveva già districato per noi, ma ce l’abbiamo fatta solo perché ciascuno di noi era bravo, aveva esperienza e si impegnava al massimo.

Doveste scegliere una sola canzona del vostro repertorio, qualche scegliereste per rappresentarvi?

Mike -  Good Vibrations, è la positività e la gioia di vivere incarnata.  is positive incarnate. Sull’opposto dello spettro che The Warmth of the Sun: è una canzone emozionante ma triste, che parla di un amore che però non si è mai concretizzato. Ricordo che Brian volle registrarla a poche ore dalla morte di Kennedy, quando ancora si discuteva del funerale. Credo abbia intrappolato la tristezza della nazione in quelle ore.