The Substance non è estremo “da svenimento”: siamo noi ad esserci distratti

Svenimenti, fughe dalle sale: il film di Coralie Fargeat è davvero così estremo? No, almeno di non essersi un po’ distratti negli ultimi decenni al cinema.

di Elisa Giudici

Nel fine settimana appena conclusosi oltre centomila “italiani coraggiosi” (parole del trionfale comunicato stampa) hanno affollato le sale italiane per vedere il film del momento: The Substance di Coralie Fargeat. Sui social abbondano le testimonianze di quanti hanno visto compagni di proiezione abbandonare la sala, con tanto di presunti (e tutti da verificare) malori, svenimenti, conati di vomito nei secchielli dei pop corn. Il body horror che segna il ritorno in pompa magna di Demi Moore è davvero così estremo?

La risposta è: no, ma vale comunque la pena di andarlo a vedere in sala. Il fatto che questo titolo orrorifico impressioni tanto - per forma e contenuto - è più che altro testimonianza di quanto siamo distratti come pubblico. Rispetto alla contemporaneità sociale e a quella cinematografica. The Substance infatti non ha il dono dell’innovazione né della profondità: la sua qualità sta nel reiterare in maniera molto esplicita, molto insistita e giocosamente eccessiva concetti che dovrebbero essere familiari a tutti.

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The Substance racconta un mostro interiore che il pubblico femminile conosce bene

Sul piano cinematografico, sono evidenti sin da subito tutti classici del horror autoriale con cui Coraline Fargeat è cresciuta. La regista francese al suo secondo lungometraggio non nasconde i suoi riferimenti, citati di continuo nella pellicola. Per i cinefili festivalieri non c’è body horror senza il “duo dei David” David Cronenberg e David Lynch, ma qui ci sono ampie citazioni allo Shining di Stanley Kubrick e dello Psycho di Alfred Hitchcock, unite a una sfrontatezza nel riflettere sulla potenza dei corpi esibendoli e smantellandoli che non può che ricordare Paul Verhoeven, per citare solo un paio d’esempi di una lista ben più lunga. D’altronde questo pugno di titoli è davvero il punto di partenza stesso del body horror, filone orrorifico che dice quel che vuole applicando la sua logica brutale e violenta al corpo. A ogni arto staccato, a ogni fiotto di sangue, a ogni cicatrice e centimetro di carne purulenta equivale talvolta la superficiale goduria dell’eccesso o, come in questo caso, un’immagine brutalmente efficace per ribadire un concetto.

Nel caso di Fargeat, il film vuole dire, anzi urlare, il disagio, il dolore e l’ansia che stanno tutte dentro la testa delle donne, a prescindere dall’aspetto e dall’età, rispetto alla propria immagine, alla propria bellezza e femminilità. The Substance ha per protagonista una Demi Moore magnifica - per interpretazione e per aspetto - che interpreta una diva 50enne silurata dall’emittente televisiva per cui lavora come conduttrice di programmi di fitness proprio a causa della sua età. Il film esplora, in un crescendo grottesco, l’odio interiorizzato che prova per sé stessa. Essendo un body horror, quest’odio ha un corpo; quello di un clone più giovane, più sodo, più spregiudicato. Sue, interpretata da una Margaret Qualley che si conferma attrice avida di sfide, prende il posto di Elisabeth nel mondo esterno e dentro casa sua, forte del fatto che persino il corpo matrice la considera migliore.

La premessa di The Substance sta tutta lì: cosa saresti disposto a fare per poter tornare a essere più giovane, più piacente, più bella, la versione migliore di te? Non importa che ci siano mille cavilli e pericoli, che sia un tornare a risplendere per interposta persona (anzi clone), che nessuna versione è davvero perfetta, o lo è a lungo. Quando si ha interiorizzato uno sguardo ipercritico su di sé, non si valuta con obiettività ciò che si ha davanti, ci si autosabota, perché ci si disprezza, nel profondo. Da qui la lotta tra Sue ed Elisabeth, il loro diventare via via grottesche e mostruose: una donna che lotta contro il suo stesso ideale impossibile, con scelte dannose dettate da un modo di pensare irrazionale ma in cui, per una donna, è facile trovare una logica schiacciante.

Da qui deriva anche un certo scollamento di reazioni tra pubblico maschile e femminile, un leggere il film in modo opposto. Come una commedia grottesca o come una tragedia angosciante. Non è la prima volta che, purtroppo, ci troviamo a registrare questo stupore, questa sorpresa rispetto a concetti che dovrebbero essere ovvi, vecchi, stantii e invece ancora sorprendono il pubblico. Un po’ perché se a portarli alla ribalta non è il film del momento che instiga la FOMO, la paura di perdersi qualcosa che porta tutti ad andare in sala, allora lo stesso messaggio passa sotto silenzio.

La semplicità brutale di Coralie Fargeat l’ha premiata

Allora mi piace immaginare Coralie Fargeat che se la ride e quasi non le sembra vero, di aver trasformato la sua crisi degli anta in una straordinaria corsa agli Oscar, in un lancio incredibile della sua carriera. Non è un percorso casuale: si può professare modestia e incredulità, ma se per il proprio secondo lungometraggio si punta a un cast internazionale, si arruola una stella in attesa di rivalsa come Moore e una star in corso di consacrazione come Qualley (con in più un Dennis Quaid davvero in palla), scegliendo come rampa di lancio il Festival di Cannes, è evidente che si punta al mercato internazionale.

Non male per una regista-autrice che si produce, si monta il film da sola, basandolo su 150 pagine di sceneggiatura iniaziale con solo 20 di dialogo. Il resto era costituito da una serie di immagini mostruose, via via più grottesche, che esasperassero questo sentirsi inadatte, non all’altezza, come se il corpo e il valore di una donna avesse una data di scadenza. Perché Fargeat si sentiva così una volta compiuti i 40 anni: finita, senza valore, anche se poi lei stessa constatava come fosse una proiezione della propria mente, che nel mondo reale non veniva corroborata in alcun modo.

Dentro la testa delle donne che non si sentono all’altezza il cinema però ci è entrato da un bel pezzo, con voci maschili e femminili a raccontare come il disprezzarsi possa partorire autentici mostri. È un po’ sconfortante quindi leggere di film rivoluzionario o mai visto prima, che affronta temi importantissimi e attuali. Soprattutto considerando che il limite di The Substance è che è, per impostazione, molto vecchio, volutamente slegato dal presente, tanto da dialogare con un tipo di maschilismo superato da almeno 20, 30 anni. Non che le donne non subiscano pressioni, non che non siano più indotte ad odiare sé stesse. Lo sono però in maniera più indiretta, raffinata, subdola rispetto a quella raccontata da Fargeat. Stupisce quindi quanto un ragionamento così lineare, semplice e ovvio stupisca e conquisti tanto. Alle volte però va così: premia una versione brutalmente semplice, alle volte un po’ superficiale e semplicistica, di un concetto piuttosto che qualcosa di più profondo, strutturato, attualizzato. Va bene così, a patto di non perdere la curiosità e il disgusto, di non svegliarsi al prossimo film scandaloso e problematico per tornare a parlare di certi temi.