La mostruosa recensione de La mia cosa preferita sono i mostri vol. 2
ll metro dell’impatto avuto da La mia cosa preferita sono i mostri, graphic novel d’esordio di Emil Ferris, si misura in un piccolo dettaglio che tuttavia dice molto su cosa è successo nel tempo trascorso tra il primo e il secondo volume: l’aletta della copertina. Nel 2018, l’estensione della cover nella bella edizione italiana di Bao Publishing ospitava un contenuto redazionale, una rapida ma efficace sintesi di ciò in cui si sarebbe imbattuto il lettore nelle successive 400 pagine (circa). Nel 2024 quello spazio è invece occupato dai cosiddetti blurb, ovvero le classiche citazioni estratte dalle recensioni del volume. Sono sei e spaziano dal The Guardian a Forbes; ma soprattutto sono una coda, perchè quelle importanti sono finite in quarta di copertina, tra un Art Spiegelman (Maus) entusiasta, il The New Yorker in sollucchero e la chiosa di Chris Ware: “Assolutamente stupefacente”.
La storia finora
Per chi si fosse perso l’inizio della storia sei anni fa, La mia cosa preferita sono i mostri racconta di Karen Reyes, adolescente nella Chicago di fine ‘60. I mostri che preferisce sono quelli che spaventano i passanti dalle copertine dei fumetti horror nelle edicole e che affollano le sue fantasie sotto le forme più disparate. I mostri per Karen non sono solo creature che affogano nel terrore alcune delle sue notti, ma anche spalle a cui affidarsi nei momenti di necessità, o a cui chiedere consiglio. Kare, in realtà, vorrebbe tanto diventare lei stessa un mostro, essere morsa da un vampiro e sfuggire così alla preoccupazione della morte. Più di tutto, però, vorrebbe che i mostri mordessero la sua mamma malata. Di contro, la sua confidenza con le mostruosità le consente di aggirarsi (quasi) sempre a suo agio per le strade di Chicago, nonostante Karen si trovi travolta da un’esistenza non certo semplice, tanto più per una poco più che adolescente, forse senza rendersene ben conto.
Nel corso del primo, fluviale volume la nostra Karen deve fare i conti con l’omicidio della sua vicina di casa Anka (a cui era molto legata), con la scoperta della malattia della madre, con la consapevolezza di appartenere a una famiglia disfunzionale e problamatica, con la propria sessualità queer osteggiata dalla religiosissima madre, con la conferma che il proprio palazzo è gestito da un gangster e che suo fratello se la spassa con la moglie approfittando del soggiorno in gatta buia del boss. Il secondo volume si apre, esattamente, dove si era concluso il primo, con Karen immersa nella macchia verde degli occhi della madre, un luogo in cui abbandonarsi e lasciarsi cullare dalla coscienza.
Interludio
Questi anni di attesa, cancellati dalla prima tavola del secondo volume che riporta il lettore in quel mood di confortevole disagio che tanto gli era stato familiare, sono stati in realtà densi di eventi. La mia cosa preferita sono i mostri è, come già detto, è il sorprendente fumetto d’esordio di Emil Ferris (per citare una nota band indie italiana) Quando lo propone nel 2016 al celebre editore indie Fantagraphics, dopo una discreta serie di rifiuti, le circa 800 tavole dell’opera completa sono pronte. Fantagraphics però, per una serie di motivi, decide di dividere l’opera in due volumi: il valore del fumetto di Ferris è sotto gli occhi di tutti, anche vostri grazie alle immagini sparse per la pagina, ma si tratta pur sempre di una esordiente e 800 pagine in un’unica soluzione sono un azzardo. Nel 2016 viene dunque pubblicato in USA il primo libro col secondo programmato per il 2017. Poi qualcosa va storto. Da qui in poi le versioni di Ferril e fantagraphics non corrispondono più, l’autrice chiede tempo per sistemare la seconda parte, l’editore sollecita la consegna e le due parti finiscono in tribunale fino al 2023, quando fantagraphics ottiene l'autorizzazione a pubblicare il secondo volume, uscito in USa a maggio 2024. Fine interludio.
La smemoranda di Karen Reyes
L'eccezionale accoglienza critica che abbiamo citato in apertura, a cui si aggiungono numerosi premi tra cui tre prestigiosissimi Eisner Award, si deve all'approccio fresco e fuori dagli schemi nei confronti del fumetto sfoggiato da Ferris. Le tavole de La mia cosa preferita sono i mostri non sono composte attraverso la classica gabbia a vignette a cui siamo abituati. Il loro aspetto è più simile a quello dei fogli che un tempo soggiornavano in corridoio, di fianco al telefono fisso di casa, col solo scopo di concedere sfogo alla fantasia grafica di in quel momento era occupato in una conversazione. La figure, spesso estremamente dettagliate, sono tratteggiate a biro su pagine block-notes a righe, con tanto di buchi laterali per gli anelli; anche la costina dei due volumi riprende “illusione”, raffigurando blocchi di pagine impilati uno sull’altro. L’idea trasmessa da Ferris e immediatamente percepibile alla lettura è quella di essere di fronte al diario personale di Karen.
E proprio come se avesse che fare con un diario, Karen (voce narrante dell’opera) gli parla, si confida e usa un tono colloquiale, tanto nelle parole quanto nei disegni. Se la prima cosa a saltare all’occhio è il livello di dettaglio delle illustrazioni a penna, lo sguardo attento coglie un gran numero di schizzi, accenni, note e ghirigori che aggiungono livelli di profondità alla tavola e alla narrazione. Di tanto in tanto, poi, Ferris (o Karen, dipende da punto di vista) cede al flusso di coscienza e la narrazione si velocizza attraverso l’uso di figure accennate, schizzi dialoganti che lentamente si avvicinano alla forma del fumetto a cui siamo abituati, per poi tornare rapidamente al caos organizzato che caratterizza il racconto per immagini di Ferris. Le tavole di La mia cosa preferita sono i mostri a volte sembrano frattali, in cui addentrandosi nel dettaglio emergono nuove figure, nuove linee, come una tana del Bianconiglio in cui si affonda senza sapere bene chi saremo una volta riemersi. È certo la caratteristica meno evidente di Ferris, potentemente oscurata dalla meraviglia che suscita il suo tratto: provate a leggere un volume con gente intorno, anche gente abituata a vedervi leggere fumetti, e noterete senza dubbio lampi di curiosità in chi vi circonda prima di raccogliere il coraggio a due mani per la fatidica domanda: “Che bello, ma posso vedere?”.
Con gli occhi di Karen
Il flusso di coscienza non è una novità, bazzica i territori della narrazione dagli inizi del ‘900 grazie a Joyce. Quel che riesce davvero molto bene a Ferris è abbassare la prospettiva all’altezza dello sguardo di un’adolescente con una vita complessa nella Chicago degli anni dell’assassinio di Kennedy e di Martin Luther King. Il mondo che Karen esperisce è filtrato attraverso il suo sguardo mostruoso che applica per prima a se stessa, restituendo alla pagina una raffigurazione caricaturale di sè, come quella che spicca sulla cover di questo secondo volume. È un vezzo di Karen, certo, ma anche un firma di Ferris, che lentamente si insinua nell’abitudine del lettore, restituendo l’effetto familiare delle gialle rotondità dei Simpsons. La sorpresa tuttavia è la maestria con cui Ferris (all’esordio nel fumetto, ricordiamolo, per quanto nata in una famiglia di artisti e impegnata nell’illustrazione e nel design) comprende e tiene in considerazione ogni implicazione anche di una scelta tutto sommato all’apparenza marginale come questa, lasciando che si insinui nell’abitudine di lettura, per poi utilizzarla per trasmettere altri significati quando la estende a comprimari che in quel momento hanno trovato il loro spazio nella sfera emotiva di Karen.
La sorpresa maggiore tuttavia è come Ferris riesca ad applicare questa lente anche alla voce di Karen; conoscete tutti la stra-abusata citazione di Picasso, non sto a ripeterla, ma costringersi a ragionare e a esprimersi come quando sia avevano 13 anni è un esercizio tra il complicatissimo e l’impossibile, che Ferris invece padroneggia con apparente semplicità. Il cervello di Karene è un motore in perenne attività, una fornace da cui emergono idee e sospetti, ingenuità e proposte di una maturità sconcertante, senza soluzione di continuità, senza legami o connessioni notabili in superficie. Alle volte capita di fermarsi, interdetti, e tornare indietro per accertarsi di non aver perso qualche pagina. Invece è solo il filo del discorso perso momentaneamente da Karen, che lo recupererà più avanti, quando tornerà a galla nella sua mente. E se da solo non vi sembra straordinario, tenete a mente che Ferris aderisce a mantenere questa impostazione per l'intera durata delle 800 pagine dei due volumi, mentre Karen viene travolta da esperienze decisamente forti per una ragazzina della sua età, che Ferris traduce in immagini facendo mostra di un'empatia fuori dal comune e di una capacità rara di comprendere e trasmettere emozioni e sentimenti.
La storia e la Storia
L’altro talento di Ferris è quello di legare la storia di Karen con la Storia, intrecciando vicende i cui effetti spuntano tra le pieghe dell’asfalto di Chicago sulla fine dei ‘60 mentre le radici si immergono nel terreno in cui abbiamo sepolto le atrocità del ‘900. Nel momento in cui Karen scopre l’orrore che ha dovuto attraversare la sua vicina Anka da bambina per mezzo di alcuni nastri registrati, o si immerge nelle opere del museo cittadino cavalcando la storia d’arte, assistiamo in presa diretta alla formazione di collegamenti mentali che sulla pagina diventano forme e disegni.
In questi momenti Karen utilizza lo stesso approccio aperto scevro di pregiudizi che porta poi sull’asfalto per attraversare le tante sotto e contro-culture che fioriscono in USA in attesa di esplodere nei ‘70 e che stazionano sui marciapiedi intorno a casa sua. Karene Reyes è protagonista di un fumetto popolare, nel senso che è ambientato a livello della strada e si muove attraverso freak, sex worker, spacciatori, perdigiorno, ubriaconi, attivisti politici, complottisti, artisti, bulletti, piccoli e grandi criminali, maniaci e qualunque altro tipo di emergainato che Karen osserva con la naturelazza di chi è abituata a sguazzarci in mezzo, ma al contempo provando a scrollarsi di dosso il pregiudizio e il bigottismo che ha assorbito dagli adulti.
La mia cosa preferita sono i mostri è una storia di tante storie che Ferris a volte lega, altre volte dimentica e riprende, poi le sovrappone, le divide e le incastra di nuovo, con una naturalezza sconcertante per un esordiente del fumetto e con una capacità di mettersi nei panni di un’adolescente davvero rara per un adulto. Più di tutto, però, La mia cosa preferita sono i mostri è una storia sulla propria identità e sulla fatica che facciamo ad accettarla e a farci i conti, ma molto spesso anche solo a decifrarla. Sotto la banale morale sclaviana de “i veri mostri siamo noi” emerge una sensibilità molto più matura di Ferris che usa i mostri per incorniciare ogni deviazione dalla normalità e mostrarne al rovescio l’umanità. Dentro le 800 pagine de La mia cosa preferita sono i mostri c’è dentro tanto, tantissimo; ma più di tutto Ferris è riuscita a confezionare un fumetto che agisce sul livello emotivo del lettore e lo trascina in un mood da cui è poi difficile sottrarsi anche dopo aver riposto il volume.
Ferris in qualche modo ha trovato la chiave che lega autore e lettore, una prerogativa delle grandi opere. Credo sia troppo presto per affibbiare a La mia cosa preferita sono i mostri etichette pesanti: il giudizio di capolavoro appartiene alla Storia, alle opere che sopravvivono al tempo. Ritornando dunque a una parentesi temporale più consona alla temporaneità della vita umana, l’opera prima di Emil Ferris è un fumetto che allarga di un pochino le possibilità di ciò che si può fare col fumetto. Se quest’anno potete permettervi di leggere un solo fumetto, La mia cosa preferita sono i mostri sarebbe il mio consiglio senza pensarci un istante.