Bioshock Infinite: undici anni senza prendere una posizione

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Un paio di giorni fa, il 23 Marzo per la precisione, si è celebrato l'undicesimo anniversario dall'uscita di Bioshock Infinite e, come di consueto, si è riaccesa la miccia in quel caustico bar virtuale chiamato Twitter. Appellativi velatamente xenofobi e accuse di wokeism ante litteram lanciati con veemenza verso chi, dall'altra parte della barricata, lo bolla come mera centrist bullsh*t; uno scenario che sembra non accontentare nessuno. Una foga social che confonde chi, come me, ha ricordi molto sommessi di questo terzo capitolo: bel gioco, non quanto il primo, gameplay un po’ stanco, finale confuso. Poco altro mi era rimasto in mente da quel primissimo (e unico) playthrough: ma stavolta non sarei rimasto in disparte, era il momento di rigiocarlo.

Un decennio è in grado di lasciare solchi profondissimi nella società contemporanea: nel 2013 Barack Obama inizia il suo secondo term come presidente degli Stati Uniti, Benedetto XVI si dimette e tutto il mondo balla grazie alla scintillante chitarra di Get Lucky. Un freddo sabato di Marzo come tanti rientro da scuola e mi lancio verso Columbia, solo nella mia camera da letto con Macbook e copia pirata davanti agli occhi. Il “budget videogiochi” di quel trimestre già scialacquato qualche settimana prima per pagare sei ore in studio di registrazione. Il gioco mi scivola addosso senza una reale frizione emotiva, senza mai tirarmi quello schiaffo indimenticabile che incastonò l’originale Bioshock nella mia memoria.

Quel tema oggi divisivo mi sembra tanto normale: “tutti gli estremi sono sbagliati”. Figlio del centrismo bonario di quegli anni, della cultura Mediaset, di un’educazione basso borghese che a cui iniziavano a scricchiolare le fondamenta e mal nascondeva una tradizione familiare radicalmente reazionaria, fatta di risaie, canti delle mondine e manganellate dei celerini. Con il senno di poi, già quell’ambiente era una manna dal cielo considerate le rampanti derive padane che iniziarono a fare capolino in quel lustro. Oggi però è tutto diverso, politicamente e socialmente, con il sottotesto di Ken Levine ad apparire sempre più scialbo, senza raggiungere l’astrazione che permea le sue prime fatiche.

Bioshock Infinite: undici anni senza prendere una posizione
Una scena di Bioshock Infinite.

La critica più comune che viene rivolta a Bioshock Infinite è la caratterizzazione dei Vox Populi, il gruppo di rivoltosi che si oppone alla dittatura di Comstock. Riscatto sociale, uguaglianza e condizioni di vita migliori sono sbandierate come obiettivo primario dei seguaci, sublimati nel tanto efficace quanto stereotipato nome del collettivo, con tanto di iconografia para-sovietica a corredo. Nessun elemento deviante rispetto allo standard rappresentativo che ci siamo abituati a trovare nei media contemporanei, incluso il momento in cui la rivoluzione si manifesta in atti di brutale violenza. Il classico dipinto in cui i buoni propositi sfociano nell’estremismo iper-razionale e nella deriva autoritaria, come già sperimentato con successo nei precedenti capitoli. 0

Si nasce e si muore nei propri ideali, fino a quando è troppo tardi per fare marcia indietro. Ed è esattamente qui che Infinite si incastra: Zachary Comstock é sì un uomo che raggiunge a forza una personale illuminazione per espiare una colpa, ma rimane insindacabilmente razzista. Il pugno di ferro mantenuto su Columbia nasce e si ancora fermamente alla supremazia razziale, per assestarsi solo in seconda battuta sull’oppressione sistemica di classe. I Vox non sono solamente un ceto economicamente meno abbiente, ma sono in grandissima parte composti da afroamericani, asiatici e altre individualità finite in tale culla sociale per nascita, non per scelta. Bioshock Infinite lo scolpisce nella pietra già nella primissima ora di gioco, ponendosi l’impossibile compito di dover biasimare la rivolta nel momento in cui assume tonalità amare.

Bioshock Infinite: undici anni senza prendere una posizione

La stessa Daisy Fitzroy si trasforma in pochi minuti da leader carbonara e idealista a sanguinolenta Robespierre, tutto questo a rivoluzione ancora in corsa. Non basta un salto temporale per giustificare la nuova luce sotto cui è illuminata, tantomeno per far dimenticare quale matrice abbia generato quel furore. É inevitabile che la conclusione “entrambe le parti sono cattive” appaia ignava, oggi più che mai.

Cos’è andato storto stavolta? Ken Levine non è certamente estraneo a ballare su questo filo, in cui le aspirazioni utopistiche non solo vengono realizzate alla lettera, ma spremute fino ad ogni goccia di conseguenza. I titoli Irrational (e Looking Glass prima) sono il mezzo perfetto per porsi la domanda “cosa succederebbe dopo”, dei veri e propri scenari what if in cui la realizzazione delle teorie novecentesche rimbalza il giocatore fra coscienza collettiva e ruolo del singolo. Lo raggiunge magistralmente il capostipite saga, in cui i presupposti oggettivisti e ultraliberisti di Andrew Ryan si infrangono nel rinnovato culto della personalità: per ogni “no gods or kings” c'è una statua del fondatore di Rapture ad aspettarti a braccia aperte, per ogni Rivolta di Atlante innalzata a bibbia del popolo, c’è un Atlas che ti guida verso l’inganno.

Bioshock Infinite: undici anni senza prendere una posizione

Persino il suo seguito (considerato da molti “apocrifo”) riesce nell’ardua impresa di ribaltare il paradigma, in cui un bieco utilitarismo prende il posto dell’utopia collettivista nata come risposta ‘di pancia’ agli eventi di dieci anni prima. Infinite invece tenta l’approccio opposto, in cui la celebrazione del singolo individuo viene espansa e portata all’astratto, una figura profetica in eterna fuga verso l’espiazione di una profonda colpa che nel suo percorso si trova indirettamente costretta a prevaricare le libertà altrui. Nonostante rimanga una premessa affascinante, il suo arco narrativo non raggiunge mai piena completezza, sia per un’esposizione troppo sbrigativa degli eventi, sia per come viene banalizzata l’evoluzione delle pedine in gioco.

Quindi l’ultimo (per ora) capitolo della serie è totalmente da buttare? Cosa fa di buono in quasi dodici ore di avventura? Semplificando all’osso mi sentirei serenamente di dire “tutto il resto”, almeno sul piano narrativo: per carità, lasciamo in disparte le orde degne del peggior Killing Floor che il gioco ci lancia addosso negli ultimi livelli. Per ogni errore commesso nell’esposizione del tema collettivo, Ken Levine colpisce il centro sul piano del singolo. Raccogliendo a due mani la libreria del filosofo americano David Lewis, Booker Dewitt assume il ruolo di protagonista universale e ne incarna il duplice archetipo di attore recitante e trasfigurazione del giocatore.

Si strizza nuovamente l’occhio alla metanarrativa senza però rompere la quarta parete: esistono innumerevoli ragazze da salvare, porte da aprire e debiti da saldare, aprendo un ventaglio di universi in cui le medesime pedine si muovono simultaneamente in direzioni diverse, assumendo caratteri talvolta divergenti. Quando non viene utilizzato come mero giustificatore per far quadrare i conti (si pensi al raffazzonato DLC Burial at Sea), l’impianto concettuale alla base di Bioshock Infinite rimane uno dei più interessanti mai visti nel gaming. Il realismo modale e la teoria della pluralità si fondono alla perfezione con il media videoludico, in cui è la stessa interazione uomo-macchina a generare intrinsecamente un oceano di possibilità diverse. Poche riescono del tutto; altre, purtroppo, solo in parte.

 

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