Halo: l’agonia di un regno
Facciamo che mi lancio in un’introduzione drammatica per attirare la vostra attenzione. Tipo: avete presente quelle scene nei film in cui la telecamera parte sorvolando un cimitero ad altezza albero? L’inquadratura abbraccia un grande appezzamento di erba all’inglese, scandito da piccole lapidi che sbucano direttamente dal terreno. La telecamera si abbassa lentamente, scivolando un poco anche verso destra. La chioma del salice che nascondeva lo sfondo lascia il posto ad una periferia lontana, rivelando che il cimitero si trova su una collina. Viene inquadrato il viale, dove c’è una macchina parcheggiata, rigorosamente nera. Non piove, ma l’atmosfera è invernale e c’è silenzio. Poi la città si allontana, man mano che la telecamera arretra e porta in scena una precisa sepoltura. Davanti al marmo della lapide c’è una persona raccolta, con il capo chino ed un mazzo di fiori in mano. Ecco, quella persona sono io, ma per comodità figuratevi Brad Pitt. Dopo qualche istante di raccoglimento a telecamera fissa, mi abbasso per deporre il mazzo sul tumulo, sospiro, mi giro e mi allontano. A quel punto l’inquadratura, ormai a livello del suolo, completa il suo movimento con una rotazione e mette al centro dello schermo la parte frontale della lapide e il nome scavato nella pietra: Halo.
Nella tana del Bianconiglio
Tutti voi avrete sicuramente una saga, un franchise al quale vi siete affezionati tanto da seguirlo oltre i confini dello schermo. Una sorta di Bianconiglio che vi ha trasformato in più di semplici persone con in mano un controller. Il mio è stato Halo, appunto. Ma non solo: prima di Halo giocavo ai videogiochi in modo caotico, quello che passava per il convento e che potevo permettermi. Giocavo su PC e PlayStation a titoli che mi venivano prestati o che qualcun altro installava. Non avevo idea della sequenzialità delle serie e per lo più non m’interessava. Infilavo nel lettore della console un Final Fantasy VII senza sapere che era, appunto, quel Final Fantasy. Completavo Resident Evil 3 prima del due e giocavo a Duke Nukem 3D con i trucchi per il puro gusto del chaos. Saltavo le cutscenes perché erano la parte noiosa e senza scopo del gioco. Certo, era tutta una questione di età: a nove, dieci e undici anni si prende tutto quello che arriva, senza tanti scrupoli.
Halo è stata la mia trasformazione in giocatore sotto ogni aspetto. Ho giocato il gioco dall’inizio alla fine, guardando i filmati e seguendo la trama. Ho aspettato i seguiti informandomi prima con le riviste (quanto mi mancano). Ho approfondito l’universo narrativo al di fuori dei giochi con i libri, i fumetti e i fan nei forum. Ma non solo: attraverso Halo ho approfondito il concetto di gioco, come vengono fatti i giochi. Ho imparato a distinguere fra sviluppatore e publisher. Ho scoperto Xbox, l’E3, le campagne marketing e quelle virali. Ho installato una ADSL per poter giocare online e mi sono quindi affacciato nell’universo multiplayer di Xbox Live. Ho iniziato a scrivere di videogiochi.
Nonostante, quasi subito, ad Halo si siano affiancati altri giochi che mi hanno lasciato tanti ricordi, il rapporto di affezione con la saga di Bungie era tale che per molti anni Halo era, per me, il concetto di videogioco stesso. Il Re.
Come detto in apertura: il Bianconiglio che mi ha portato nella tana del gaming. Il vostro non sarà Halo. Non sarà nemmeno un FPS, ma esiste. Tutti noi abbiamo un Bianconiglio, altrimenti non saremmo qui.
Il punto di non ritorno
Com’è giusto che sia, negli anni sono arrivati nuovi giochi capaci di attirare attenzione e dedizione, togliendola ad Halo. Così l’ossessione zelota tipica dei ragazzi e degli adolescenti si è trasformata in una razionale passione, che poi è andata a stabilizzarsi in un sentito interesse. Però non si può dimenticare il passato, fare come se una delle radici dalle quali si è sviluppato l’albero non esistesse e non fosse importante. Per questo motivo, anche se con meno partecipazione di prima, la vita del franchise Microsoft è sempre rimasta nel mio radar, cosa che, purtroppo, mi ha portato a vedere il decadimento totale di una saga che per alcuni anni ha dominato il mondo e di cui ora ne è rimasto meno che lo spettro.
Non si tratta di una sensazione personale. Ci sono i numeri, i ritardi, le figuracce e la freddezza di una community sempre più esile a testimonianza del declino. Un declino che inizialmente consideravo fisiologico, dovuto al passaggio di consegne fra Bungie e 343 Industries. Un declino che, man mano che si aggravava, ho minimizzato con il racconto della necessità di riorganizzare le idee, prendere le misure con i tempi in cui ci stavamo muovendo. Un declino che, a più di un anno dal lancio di Halo Infinite non posso più definire nei termini di prima e che, per la prima volta, sono pronto a considerare come inarrestabile e inguaribile.
Che Halo sia in stato terminale è lampante da mesi, solo che c’è poca voglia di dirlo ad alta voce. Forse per paura che diventi vero. Che i responsabili siano i custodi del suo nome è altrettanto manifesto. 343 Industries ha colpe enormi nel depauperamento di un’eredità colossale, e lo dimostra il fatto che, quando qualche settimana fa si era fatta strada una voce di corridoio che voleva Microsoft sul punto di mettere in panchina il team di sviluppo per affidare la serie a qualcun altro, il sentimento generale fra i fan era stato di sollievo e speranza. Sostituito da delusione nel momento in cui tali voci sono state smentite. Anche Microsoft stessa ha le sue responsabilità. Forse il quadro interno è diverso, ma esternamente sembra che la multinazionale, impegnata in progetti più grandi come Gamepass, acquisizioni e Xbox stessa, abbia dato una camionata di soldi a 343 Industries, carta bianca su tutto e poi non sia più passata a controllare cosa stava succedendo nello studio, salvo poi scoprire il peggio nei momenti in cui gli occhi del pubblico erano già puntato sul patatrac (vedere voce: trailer di Halo Infinite e Craig il Brute).
Come si è arrivati a tutto questo?
Ricordo che prima del lancio di Halo Infinite stavo leggendo un’intervista al team di 343 Industries e mi ero imbattuto in una risposta alla domanda sul rinnovo della serie che, riassunta, diceva: molte delle nuove persone che ora lavorano sul franchise non apprezzavano Halo e sono venute a lavorare con noi proprio perché hanno visto la possibilità di modificare gli aspetti del gioco che non gradivano e renderlo diverso, migliore. Una risposta che da fan, pure un poco estremista, mi aveva lasciato più che perplesso. Intendiamoci: può avere una sua logica, ma per accettarla bisogna anche accettare che tutto quello che ha reso celebre e solido il franchise sia messo in discussione. L’esatto contrario di “squadra che vince non si cambia”. Sta di fatto che negli anni quella risposta mi è rimasta impressa e oggi, con il comodo senno del poi, giudico molto più dannosa che preziosa per il destino di Halo.
Certo, è giusto obiettare che una serie deve saper evolvere per rimanere sulla cresta dell’onda. Ed è altrettanto vero che 343 Industries non ha mai applicato cambiamenti stravolgenti ad Halo, tanto da cambiarne la natura. Anzi, bisogna ammettere che i cambiamenti più grossi mai introdotti sono probabilmente gli unici aspetti realmente positivi di Halo Infinite, che senza quelli sarebbe stato il fratello povero di un reboot di Halo: Combat Evolved.
Allo stesso tempo è assodato che tutto ciò che è stato cambiato non faceva parte di un disegno più grande, di un piano articolato, ma era frutto di una sperimentazione costante e disordinata inserita all’interno di una trilogia mai apparsa coerente e organica. Nel cercare la nuova anima della serie, 343 Industries ha usato come cavia una trilogia intera, adattando la narrativa al bisogno del momento e, così facendo, strappando e lacerando una continuità e una coerenza costruita nei dieci anni precedenti.
Il punto più basso di questo processo si è toccato con Halo Infinite. Ogni riferimento precedente spazzato via in nome di una non meglio giustificata accessibilità per i nuovi arrivati – questo nonostante fosse il terzo episodio di una trilogia – fatto salvo il recupero di un antagonista assai marginale nel racconto totale di una saga mosaicata su più media. Antagonista che nemmeno si vede nel gioco, sostituito da tre personaggi tanto dimenticabili nella trama, quanto insipidi e banali nel gameplay (pensate che mentre scrivevo mi ero dimenticato che i boss finali sono tre e non due, questo per dire quanto l’ultimo mi sia rimasto impresso).
Disperdendo le ceneri
Ciò che inizialmente pensavo fosse un desiderio di distanziarsi dalla fonte originale (Bungie) per tracciare la propria via, e che ad un certo punto ho visto come arroganza nel maneggiare materiale in modo così disinteressato al rispetto del pubblico, si è infine rivelato essere puro e semplice spaesamento e disorganizzazione. In questo momento 343 Industries, che per la seconda volta nella sua gestione della serie ha chiesto aiuto ad altre software house per portare avanti lo sviluppo, è nel pallone completo e il fatto che la cosa non fa notizia è solamente per le conseguenze dirette di tutto ciò: a nessuno interessa molto di quello che sta succedendo ora ad Halo, perché a nessuno interessa più tanto di Halo perché la serie è stata portata avanti in modo catastrofico. La speranza (anche se si tratta di un termine che ormai mi sembra di aver svuotato) è che questo ciclo non inneschi un sistema auto alimentato per il quale, alla ricerca di nuovi consensi, vengano fatte crescere coerenza e rifiuto del passato nel tentativo di inseguire un nuovo pubblico, non ancora indentificato. Le voci che vogliono il prossimo progetto, nome in codice Tatanka, come un battle royale sviluppato con Unreal Engine sembrano essere indizio che tale ciclo sia prossimo a cominciare.
Così, oggi, anno domini 2023, abbiamo una serie capace di proporsi a livello mondiale come fenomeno di massa, ridotta ad un’esistenza in bilico fra il vaporware e la scrollata di spalle. Con un episodio principale che non vede supporto o annunci da più di un anno, un multiplayer ridotto a numero da free-to-play in chiusura, un motore grafico apparentemente già messo in cantina e una gestione generale dello studio che ha fatto delle porte girevoli attraversate dai tanti che entrano ed escono l’unico motivo per divenire notizia.
Come se ne esce?
Non penso si possa, a meno di un cambio totale che però è già stato smentito. Al momento attuale il fatto che si parli poco di Halo è forse la cosa migliore per Xbox e Microsoft. Purtroppo, però, non sembra possibile immaginare un futuro in cui la serie torna agli splendori di una volta. I diversi scenari che mi vengono in mente non sarebbero comunque una scappatoia, visti i molteplici problemi che affliggono tutta la gestione. Per fare un esempio: Halo deve sperare che i battle royale passino di moda e che tornino alla ribalta in modo roboante le esperienze single player? Mica tanto, come detto prima, la serie è una confusionaria sequenza di episodi slegati fra loro che poco invogliano a ricamarci intorno un pubblico di appassionati come lo era quello del decennio scorso.
Allora può sperare che le arene multiplayer riconquistino il cuore di chi gioca online, no? Nemmeno. Il multiplayer di Halo è in uno stato preoccupante. Non tanto il suo gameplay, che funziona, ma la sua capacità di adattarsi alle formule odierne, fatte di stagioni e nuovi contenuti a cadenza fissa. Senza contare i problemi di bilanciamento che nel web sono stati analizzati e descritti con dovizia di particolari.
Ora come ora, personalmente, non vedo particolari possibilità di recupero se non un bel reset, fare come se Halo non fosse mai esistito e ricominciare da zero. Possibile? Sì, se si ha il coraggio di farlo e, nel farlo, di darlo nelle giuste mani. Succederà? Non credo. Quando seguivo la serie con più ardore, ricordo che uno dei motti usato per glorificare gli Spartan era “Spartans never die, they are only MIA”. Una frase di propaganda usata dall’esercito umano per far apparire i loro soldati di punta come invincibili ed evitare colpi all’umore se si fosse saputo che anche loro potevano morire.
Gli Spartan non muoiono mai, sono solo dispersi in azione.
Non penso di crederci ancora.