I veri soldati del futuro
di
Marco Modugno
“Questa roba é piena zeppa di bachi” spiega il tenente John Gelineau, Compagnia Alpha, 4 Battaglione, ) Reggimento di Fanteria degli Stati Uniti d'America, grattandosi la testa sudata, i capelli tagliati cortissimi anche se non quanto quelli dei suoi omologhi dei marines, dopo essersi sfilato l'elmetto “Fritz” con telino pixelcamo di ultima generazione. Poi prosegue, senza riuscire a nascondere del tutto una vena di delusione, attaccando a parlare di problemi di connessione, di “lag”, di difetti nella gestione della telecamera di mira e dell'Head Up Display.
Pare proprio che stia lamentandosi dei problemi riscontrati durante una sezione di playtesting del Beta di qualche nuovo sparatutto bellico di ultima generazione. Ci guardiamo intorno, però, e qualcosa non quadra. Non ci troviamo nella sala semibuia e climatizzata di una software house blasonata, accanto alla batteria di superPC collegati in LAN e utilizzati per le ultime prove di un gioco prossimo alla commercializzazione. La cornice che fa da sfondo alle lamentele del nostro giovane ufficiale é quella ben più suggestiva del percorso di addestramento alle tecniche di combattimento di fanteria di Fort Lewis, all'ombra dell'imponente stratovulcano di Mount Ranier, nello stato di Washington. E l'oggetto del contendere non é, questa volta, un videogioco next-gen, bensì la generazione prossima ventura di sistemi di comando e controllo, e di combattimento, con cui i soldati americani dovranno essere dotati, crisi permettendo, nel corso dei prossimi due decenni del prossimo secolo.
Future Soldier (in realtà negli USA l'acronimo corretto é FFW, che sta per Future Force Warrior) non é solo, allora, il nome distintivo dell'ultimo titolo del fortunato franchise Ghost Recon, ma anche la definizione, per la verità piuttosto generica, con la quale diversi stati americani ed europei definiscono il loro programma di sviluppo e sperimentazione della dotazione di sistemi d'arma, sopravvivenza e comunicazione con cui equipaggiare le proprie forze armate di terra.
La guerra del Vietnam, primo conflitto a ricevere un'elevata copertura mediatica, ma anche primo ad essere combattuto da una generazione (parlo degli americani, ovviamente) ormai adusa ad un elevato livello di benessere economico e sociale, e quindi molto meno disponibile di quelle che l'avevano preceduta al sacrificio personale o dei propri congiunti inviati in zona di combattimento, rappresenta storicamente senz'altro un punto di svolta dopo il quale, per adoperare una frase volutamente esemplificativa “la guerra non é più stata la stessa”. Se il progresso tecnologico degli armamenti aveva reso possibile anche prima del conflitto indocinese, durante le due guerre mondiali e quella di Corea, una “meccanizzazione” della macchina di sterminio fino a quel momento inedita, rendendo possibili moltiplicatori in termini di numero di vittime umane decisamente esponenziali, solo all'epoca del Vietnam si é assistito alla maturazione di una coscienza pubblica nei paesi del benessere che ha smesso di giudicare accettabile la perdita di un proprio caro in nome di una causa nazionale (giusta o sbagliata, non é questo il luogo per giudicare) intesa come più importante della singola vita stessa.
E' da allora che, parallelamente allo sviluppo di sistemi d'arma sempre più letali ed efficienti, si é iniziato concretamente a pensare alle dotazioni individuali del fante in chiave conservativa della sua incolumità, con il preciso intento di limitare il più possibile le proprie perdite. Stessa delicatezza, ovviamente, non viene mai usata nei confronti del nemico che anzi, secondo l'accezione tattica attuale, deve essere piegato e annientato nel più breve tempo possibile, proprio al fine di salvaguardare i propri “ragazzi”.
L'overkill aeronautico e missilistico che precedette le operazioni terrestri durante l'Operazione Desert Storm contro l'Iraq nel 1991 e, con minore fortuna, la campagna d'invasione alleata dello stesso Paese nel 2003, ne é chiara dimostrazione, con un dato delle perdite militari mostruosamente asimmetrico a favore degli invasori. In un conflitto vecchio stile, dove chi si difende in teoria é sempre avvantaggiato, avrebbe dovuto essere l'esatto contrario.
Il generale americano George S. Patton una volta disse che “l'obiettivo di una Guerra none morire per il proprio Paese, ma fare sì che il bastardo dall'altra parte (il nemico, ndR) muoia per il suo”. In questo condivisibile aforisma é riassunto efficacemente lo scopo dei programmi nazionali per il “soldato del futuro”.
Non sempre, come abbiamo visto, la tecnologia si mostra già all'altezza delle aspettative degli uomini sul campo, se non nell'immaginazione di qualche sviluppatore di videogiochi. Più spesso, almeno finora, i gadget ultra tecnologici come comunicatori personali criptati, localizzatori, monitor medici portatili, ottiche HUD applicate all'elmetto e puntatori montati sull'arma personale (costo per singolo soldato, al momento, circa 30/mila dollari!), finiscono per mostrarsi parzialmente inefficienti, frutto di una tecnologia dove la quantità di idee non sempre s'incontra con altrettanti mezzi economici e maturità tecnica sufficiente a metterle in pratica. Oltre tutto, quei quattro dannati chili in più (escluse le batterie di ricambio, che ora vengono portate a parte...) possono rappresentare, sul campo, la differenza tra l'efficienza e lo sfinimento per eccessiva disidratazione e i fanti di oggi (quelli di domani vedremo...) sarebbero ben contenti di sostituirli con altrettanto peso in munizioni, acqua o viveri. Anche l'inizio dell'era della polvere da sparo, però, fu macchinosa e non priva di piccoli e grandi difficoltà. Meglio quindi rassegnarsi al prossimo salto tecnologico in ambito di sistemi d'arma individuali, e andare a dare una sbirciata a qualche gustosa novità che nemmeno i più smaliziati game designer sono ancora andati a svelare. A partire dall'impiego nella nanotecnologia in ambito neurofarmacologico.
Accadrà allora un giorno che un soldato ferito e isolato dai compagni, grazie all'attivazione automatica di bio-impianti di automedicazione, verrà anestetizzato e mantenuto in vita, cosciente e senza dolore, fino a novantasei ore dal ferimento. Nel mentre, grazie al sistema integrato di comunicazione e controllo di cui il suo elmetto sarà dotato, potrà inviare messaggi alla base, richiedere missioni d'artiglieria sugli obiettivi in vista, controllare droni senza pilota e, visto che c'é, anche segnalare la sua posizione (se fosse incosciente ci penserebbe un radiotrasmettitore satellitare automatico) ai suoi alleati per farsi recuperare e soccorrere.
Quanto agli armamenti veri e propri, se pare definitivamente accantonato il progetto per lo sviluppo di una “bomba gay” (non é uno scherzo, ne parlava un articolo del Sole24 Ore) a base di afrodisiaci, studiata dall'USAF per “influenzare i soldati nemici in combattimento”, restano di piena attualità progetti altrettanto fantasiosi. A partire dal cannone Metal Storm, un mitragliatore a 36 canne capace di sviluppare una cadenza di tiro (finora teorica) di un milione (!!!) di colpi al minuto, fino al robottino armato di mitragliera che vedete in una delle foto, sviluppato dalla iRobot, la stessa ditta che costruisce le sbalorditive aspirapolveri robotizzate Roomba (ne ho una a casa e da quando ho scoperto che la stessa tecnologia produce droni armati, la guardo spolverarmi il salotto con un briciolo d'apprensione...). Lanciagranate intelligenti in grado di colpire bersagli dietro un riparo, fucili laser e a raggio di calore e addirittura (dalla stessa casa che produce il pupazzo Elmo TMX, ah che bello il mondo delle multinazionali che sfornano pannolini e bombe cluster dallo stesso complesso industriale!...) un'arma capace di dosare la velocità di uscita delle munizioni, rendendole non letali o, quando invece serve, estremamente perforanti.
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Il massimo, però, é il progetto Avatar. Che in comune con il sopravvalutato lungometraggio di Cameron ha proprio l'idea di base. Ossia permettere a dei soldati comodamente al sicuro in una base protetta di comandare in battaglia, attraverso un sofisticato sistema di controllo a distanza mutuato da quello che oggi consente ad un pilota seduto in un hangar del Nevada di compiere una missione di bombardamento con un drone Predator in Afghanistan, delle unità robotizzate armate che dovranno sostituire via via, nell'ottica dei progettisti, i soldati in carne ed ossa.
La prospettiva di vedere in un futuro non distante una nazione schierare in battaglia un esercito di macchine mette i brividi, specie considerando che la nostra generazione é cresciuta con la saga di Terminator. Una guerra combattuta a distanza, attraverso telecamera e joystick, ma con la differenza che quelli sul monitor non sono bot di pixel, ma veri esseri umani che il mio alter ego meccanico sul campo é in grado di macellare mentre me ne sto in pantaloncini e ciabatte seduto in poltrona a migliaia di chilometri di distanza, diverrebbe, di fatto, troppo simile ad un videogioco, eliminando in chi combatte la percezione di stare uccidendo i propri simili. Molti conflitti sanguinosi sono cessati, finalmente, quando chi combatteva si é stancato di uccidere, di guardare negli occhi i propri simili mentre morivano, e chi ha frequentato assiduamente gli ambienti militari sa come i primi pacifisti siano proprio i veterani, chi ha visto e annusato la morte da vicino. Una sensazione difficilmente riproducibile in chi combattesse da lontano, senza correre a sua volta il rischio di perdere la salute o la vita. Capace per questo di andare avanti con lo sterminio senza remore, salvo poi tornare a casa al cambio di turno per annaffiare il prato mentre al fronte si continua a morire, in un eccidio virtualmente senza fine (chi legge le statistiche delle vittime, per fortuna solo virtuali, che scorrono a fondo schermo durante le partite con gli FPS di ultima generazione non farà fatica ad immaginarsi come sarebbe il mondo se quei numeri parlassero di morti reali, se quei dati diventassero, addirittura, criteri di valutazione dell'efficienza di un combattente, utili per decidere su promozioni e altri incentivi).
Ripensando alle imprecazioni del tenente Gelineau, però, ci rincuoriamo almeno un po'. Dopotutto, a quanto sembra, in campo bellico come in quello videoludico, il “baco” é sempre in agguato e anche l'ipertecnologia militare rischia allora un giorno di ritrovarsi gabbata, nella realtà come spesso abbiamo visto al cinema, da un manipolo di ragazzini smanettoni, magari nati e cresciuti in una nazione terzomondista, con gli occhiali spessi, l'acne, una passione per i videogiochi e creatività da vendere. Così alla fine, magari, l'uomo vincerà sulla macchina. Ancora una volta.
Pare proprio che stia lamentandosi dei problemi riscontrati durante una sezione di playtesting del Beta di qualche nuovo sparatutto bellico di ultima generazione. Ci guardiamo intorno, però, e qualcosa non quadra. Non ci troviamo nella sala semibuia e climatizzata di una software house blasonata, accanto alla batteria di superPC collegati in LAN e utilizzati per le ultime prove di un gioco prossimo alla commercializzazione. La cornice che fa da sfondo alle lamentele del nostro giovane ufficiale é quella ben più suggestiva del percorso di addestramento alle tecniche di combattimento di fanteria di Fort Lewis, all'ombra dell'imponente stratovulcano di Mount Ranier, nello stato di Washington. E l'oggetto del contendere non é, questa volta, un videogioco next-gen, bensì la generazione prossima ventura di sistemi di comando e controllo, e di combattimento, con cui i soldati americani dovranno essere dotati, crisi permettendo, nel corso dei prossimi due decenni del prossimo secolo.
Future Soldier (in realtà negli USA l'acronimo corretto é FFW, che sta per Future Force Warrior) non é solo, allora, il nome distintivo dell'ultimo titolo del fortunato franchise Ghost Recon, ma anche la definizione, per la verità piuttosto generica, con la quale diversi stati americani ed europei definiscono il loro programma di sviluppo e sperimentazione della dotazione di sistemi d'arma, sopravvivenza e comunicazione con cui equipaggiare le proprie forze armate di terra.
La guerra del Vietnam, primo conflitto a ricevere un'elevata copertura mediatica, ma anche primo ad essere combattuto da una generazione (parlo degli americani, ovviamente) ormai adusa ad un elevato livello di benessere economico e sociale, e quindi molto meno disponibile di quelle che l'avevano preceduta al sacrificio personale o dei propri congiunti inviati in zona di combattimento, rappresenta storicamente senz'altro un punto di svolta dopo il quale, per adoperare una frase volutamente esemplificativa “la guerra non é più stata la stessa”. Se il progresso tecnologico degli armamenti aveva reso possibile anche prima del conflitto indocinese, durante le due guerre mondiali e quella di Corea, una “meccanizzazione” della macchina di sterminio fino a quel momento inedita, rendendo possibili moltiplicatori in termini di numero di vittime umane decisamente esponenziali, solo all'epoca del Vietnam si é assistito alla maturazione di una coscienza pubblica nei paesi del benessere che ha smesso di giudicare accettabile la perdita di un proprio caro in nome di una causa nazionale (giusta o sbagliata, non é questo il luogo per giudicare) intesa come più importante della singola vita stessa.
E' da allora che, parallelamente allo sviluppo di sistemi d'arma sempre più letali ed efficienti, si é iniziato concretamente a pensare alle dotazioni individuali del fante in chiave conservativa della sua incolumità, con il preciso intento di limitare il più possibile le proprie perdite. Stessa delicatezza, ovviamente, non viene mai usata nei confronti del nemico che anzi, secondo l'accezione tattica attuale, deve essere piegato e annientato nel più breve tempo possibile, proprio al fine di salvaguardare i propri “ragazzi”.
L'overkill aeronautico e missilistico che precedette le operazioni terrestri durante l'Operazione Desert Storm contro l'Iraq nel 1991 e, con minore fortuna, la campagna d'invasione alleata dello stesso Paese nel 2003, ne é chiara dimostrazione, con un dato delle perdite militari mostruosamente asimmetrico a favore degli invasori. In un conflitto vecchio stile, dove chi si difende in teoria é sempre avvantaggiato, avrebbe dovuto essere l'esatto contrario.
Il generale americano George S. Patton una volta disse che “l'obiettivo di una Guerra none morire per il proprio Paese, ma fare sì che il bastardo dall'altra parte (il nemico, ndR) muoia per il suo”. In questo condivisibile aforisma é riassunto efficacemente lo scopo dei programmi nazionali per il “soldato del futuro”.
Non sempre, come abbiamo visto, la tecnologia si mostra già all'altezza delle aspettative degli uomini sul campo, se non nell'immaginazione di qualche sviluppatore di videogiochi. Più spesso, almeno finora, i gadget ultra tecnologici come comunicatori personali criptati, localizzatori, monitor medici portatili, ottiche HUD applicate all'elmetto e puntatori montati sull'arma personale (costo per singolo soldato, al momento, circa 30/mila dollari!), finiscono per mostrarsi parzialmente inefficienti, frutto di una tecnologia dove la quantità di idee non sempre s'incontra con altrettanti mezzi economici e maturità tecnica sufficiente a metterle in pratica. Oltre tutto, quei quattro dannati chili in più (escluse le batterie di ricambio, che ora vengono portate a parte...) possono rappresentare, sul campo, la differenza tra l'efficienza e lo sfinimento per eccessiva disidratazione e i fanti di oggi (quelli di domani vedremo...) sarebbero ben contenti di sostituirli con altrettanto peso in munizioni, acqua o viveri. Anche l'inizio dell'era della polvere da sparo, però, fu macchinosa e non priva di piccoli e grandi difficoltà. Meglio quindi rassegnarsi al prossimo salto tecnologico in ambito di sistemi d'arma individuali, e andare a dare una sbirciata a qualche gustosa novità che nemmeno i più smaliziati game designer sono ancora andati a svelare. A partire dall'impiego nella nanotecnologia in ambito neurofarmacologico.
Accadrà allora un giorno che un soldato ferito e isolato dai compagni, grazie all'attivazione automatica di bio-impianti di automedicazione, verrà anestetizzato e mantenuto in vita, cosciente e senza dolore, fino a novantasei ore dal ferimento. Nel mentre, grazie al sistema integrato di comunicazione e controllo di cui il suo elmetto sarà dotato, potrà inviare messaggi alla base, richiedere missioni d'artiglieria sugli obiettivi in vista, controllare droni senza pilota e, visto che c'é, anche segnalare la sua posizione (se fosse incosciente ci penserebbe un radiotrasmettitore satellitare automatico) ai suoi alleati per farsi recuperare e soccorrere.
Quanto agli armamenti veri e propri, se pare definitivamente accantonato il progetto per lo sviluppo di una “bomba gay” (non é uno scherzo, ne parlava un articolo del Sole24 Ore) a base di afrodisiaci, studiata dall'USAF per “influenzare i soldati nemici in combattimento”, restano di piena attualità progetti altrettanto fantasiosi. A partire dal cannone Metal Storm, un mitragliatore a 36 canne capace di sviluppare una cadenza di tiro (finora teorica) di un milione (!!!) di colpi al minuto, fino al robottino armato di mitragliera che vedete in una delle foto, sviluppato dalla iRobot, la stessa ditta che costruisce le sbalorditive aspirapolveri robotizzate Roomba (ne ho una a casa e da quando ho scoperto che la stessa tecnologia produce droni armati, la guardo spolverarmi il salotto con un briciolo d'apprensione...). Lanciagranate intelligenti in grado di colpire bersagli dietro un riparo, fucili laser e a raggio di calore e addirittura (dalla stessa casa che produce il pupazzo Elmo TMX, ah che bello il mondo delle multinazionali che sfornano pannolini e bombe cluster dallo stesso complesso industriale!...) un'arma capace di dosare la velocità di uscita delle munizioni, rendendole non letali o, quando invece serve, estremamente perforanti.
Il massimo, però, é il progetto Avatar. Che in comune con il sopravvalutato lungometraggio di Cameron ha proprio l'idea di base. Ossia permettere a dei soldati comodamente al sicuro in una base protetta di comandare in battaglia, attraverso un sofisticato sistema di controllo a distanza mutuato da quello che oggi consente ad un pilota seduto in un hangar del Nevada di compiere una missione di bombardamento con un drone Predator in Afghanistan, delle unità robotizzate armate che dovranno sostituire via via, nell'ottica dei progettisti, i soldati in carne ed ossa.
La prospettiva di vedere in un futuro non distante una nazione schierare in battaglia un esercito di macchine mette i brividi, specie considerando che la nostra generazione é cresciuta con la saga di Terminator. Una guerra combattuta a distanza, attraverso telecamera e joystick, ma con la differenza che quelli sul monitor non sono bot di pixel, ma veri esseri umani che il mio alter ego meccanico sul campo é in grado di macellare mentre me ne sto in pantaloncini e ciabatte seduto in poltrona a migliaia di chilometri di distanza, diverrebbe, di fatto, troppo simile ad un videogioco, eliminando in chi combatte la percezione di stare uccidendo i propri simili. Molti conflitti sanguinosi sono cessati, finalmente, quando chi combatteva si é stancato di uccidere, di guardare negli occhi i propri simili mentre morivano, e chi ha frequentato assiduamente gli ambienti militari sa come i primi pacifisti siano proprio i veterani, chi ha visto e annusato la morte da vicino. Una sensazione difficilmente riproducibile in chi combattesse da lontano, senza correre a sua volta il rischio di perdere la salute o la vita. Capace per questo di andare avanti con lo sterminio senza remore, salvo poi tornare a casa al cambio di turno per annaffiare il prato mentre al fronte si continua a morire, in un eccidio virtualmente senza fine (chi legge le statistiche delle vittime, per fortuna solo virtuali, che scorrono a fondo schermo durante le partite con gli FPS di ultima generazione non farà fatica ad immaginarsi come sarebbe il mondo se quei numeri parlassero di morti reali, se quei dati diventassero, addirittura, criteri di valutazione dell'efficienza di un combattente, utili per decidere su promozioni e altri incentivi).
Ripensando alle imprecazioni del tenente Gelineau, però, ci rincuoriamo almeno un po'. Dopotutto, a quanto sembra, in campo bellico come in quello videoludico, il “baco” é sempre in agguato e anche l'ipertecnologia militare rischia allora un giorno di ritrovarsi gabbata, nella realtà come spesso abbiamo visto al cinema, da un manipolo di ragazzini smanettoni, magari nati e cresciuti in una nazione terzomondista, con gli occhiali spessi, l'acne, una passione per i videogiochi e creatività da vendere. Così alla fine, magari, l'uomo vincerà sulla macchina. Ancora una volta.
I veri soldati del futuro
I veri soldati del futuro
Stavo per chiudere lo speciale con la sua morale conclusiva, in un certo qual modo cupa, anche se non esente da una vena di speranza. Poi però mi sono ricordato di un filmato di Discovery Channel di qualche tempo fa e ho voluto regalarvi un sorriso concedendoun momento di gloria all'arma del futuro più bizzarra che conosca. Ossia al CornerShot Assault Pistol Rifle calibro 7,62, un fucile capace di sparare ad angolo retto per consentire al tiratore di mantenersi al riparo, e fin qui nulla di strano perché ci avevano già pensato i soliti tedeschi primi della classe durante la seconda guerra mondiale. La chicca, però, é un accessorio di cui l'arma può essere dotata. Ossia un gatto soriano di pelouche sufficientemente realistico (vedi foto) per poter essere scambiato a distanza per il suo omologo di carne e pelo. L'ideatore del gadget doveva essere convinto che a nessuno, sia pure in guerra, verrebbe voglia di sparare a sangue freddo ad un povero micio (io ho i miei dubbi, però...) e ha creato il simulacro del felico da montare sulla canna, per dissimularne il profilo quando viene sporto oltre un angolo. Miao!