Il polso dell'horror indipendente

A poche settimane dall'uscita di Silent Hill 2, cerchiamo di capire cosa può offrire il mercato indie al genere horror

Il polso dellhorror indipendente
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In quello che si appresta ad essere un quarto di secolo all’insegna di incertezze sociali e culturali, i gusti personali hanno assunto il ruolo di unico pilastro a cui potersi aggrappare. Non più una semplice fonte di svago temporale, ma un concreto carattere fondante usato per descriverci a noi stessi e agli altri: mi piacciono il post-rock, la letteratura di fine novecento, il cinema europeo e i videogiochi. Ne sono sicuro. Eppure quando mi viene chiesto “cosa ti piace giocare?” non sono più così sicuro di cosa dire. Qualche anno fa avrei risposto senza troppe remore “i giochi horror, soprattutto indie”, frase che oggi non potrei mai pronunciare senza far seguire un pretenzioso “...ma non quegli horror indie, gli altri…”. 

Il polso dell'horror indipendente
five nights at freddy's

Giocattoli + maledizione + jumpscare = profit

Il sottobosco indipendente ha subito degli smottamenti enormi nell’ultimo decennio: da pura nicchia PC  a vero e proprio mercato parallelo, da angolo informe dell’Xbox Live Marketplace a prima punta dei servizi in abbonamento, da nido di progetti one-man-band a vera e propria filiera developer/publisher. Un ambiente che nell’anno peggiore per le software house tripla A riesce comunque a mantenere quella facciata candida verso l’utenza, una spiaggia argentea in cui (apparentemente) certe scorie ancora non sono arrivate. Una massa di consumatori che, esattamente come il concetto stesso del termine “indie”, è mutata profondamente: numeri diversi, standard diversi, obiettivi diversi, in cui molto spesso il vecchio viene lasciato indietro per tentare di raggiungere un bacino giovanissimo, alto spendente e potenzialmente immenso. Ed è proprio su queste premesse che si innesta il fenomeno dei mascot horror. Hello Neighbour, Poppy Playtime, Garten of Banban, Bendy and the Ink Machine, Circus of TimTim, Amanda the Adventurer, Tattletail, Playtown, Toytopia, Rainbow Friends, Amanda The Adventurer, e (credetemi) moltissimi altri. Mentre scrivo questo elenco sono conscio di commettere il primissimo errore della scrittura, ma non c’era altro modo per farvi sperimentare l’effetto slavina che sta vivendo il genere. Urban Dictionary definisce Mascot Horror come: 

“Un sottogenere dell'horror spesso creato per attirare il pubblico più giovane, caratterizzato da una mascotte riconoscibile (solitamente commerciabile).” 

e possiamo tracciarne la prima comparsa con l’uscita di Five Nights at Freddy's. Ben lontano da sequel, spin-off e adattamenti audiovisivi più o meno amatoriali, l’esperienza shock horror di Scott Cawthon rivoluziona l’industria.

Un fenomeno di rottura, uno di quei titoli nati sulle macerie di decine e decine di fallimenti e cresciuti organicamente solo grazie alla forza del passaparola online. Era l’internet dei let’s play fatti in cameretta, con luci spente, reazioni spropositate e sottotitoli sovraimpressi dallo stesso autore perché YouTube ancora non li supportava. Un ecosistema rivoluzionario in grado di far guadagnare milioni di dollari ad un progetto dal budget talmente rado da diventare inquantificabile. Ma se da un lato le pietre angolari alla Blair Witch iniettano linfa monetaria nel mercato di riferimento, involontariamente si ritrovano anche ad imporre una cifra stilistica ben precisa a chi di questo mercato vorrà farne parte a tutti i costi. Possiamo ricavarne dei cardini estetici e funzionali? Riusciamo a confezionare intorno uno scenario riempitivo appena appena differente? E soprattutto, cosa aveva FNAF in più rispetto a Slenderman? 

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Hollowbody

La plastica guida il mondo

La lista di giochi in apertura di articolo esagera volutamente uno scenario monocolore che oggi ci troviamo davanti unendo le parole “indie” e “horror”, perlomeno nella maggioranza dei casi. L’appiattimento concettuale del mascot horror è da ricercare nella sua stessa formula: jumpscare. meccanica “scappa dal mostro”, antagonista strettamente legato all’immaginario puerile e con un generico twist demoniaco dietro l’angolo. Uno schema semplicissimo da replicare su larga scala, perfetto per accalappiare la sempre più breve soglia dell’attenzione infantile ed essere declinato con altissimo margine. E così sugli scaffali di Walmart troviamo le action figure di Bendy, al cinema il film di FNAF e online gli NFT di Poppy. Se la creepypasta del 2009 si era arenata principalmente nel contesto videoludico e in una trasposizione cinematografica impalpabile, Five Nights e cloni sono riusciti a compiere il balzo verso l’ultimo stadio: il consumismo. A cavallo fra vecchio e nuovo millennio usavamo i cartoni animati per veicolarne la diffusione, oggi il mezzo preferito è quello interattivo. La costante nei due scenari è qualitativa. Qualcuno si ricorda i duecento cloni delle Tartarughe Ninja che infestavano le reti televisive? Qualcuno si ricorda il sunday cartoon di Mortal Kombat? Già…

A ciò va aggiunto un tanto prepotente, quanto acido confronto con la realtà commerciale del genere: prendendo in mano la classifica di vendite all time di qualche anno fa ovviamente trovavamo al primo posto la saga Resident Evil, forte di oltre 120 milioni di copie distribuite con oltre trenta titoli. Sul secondo gradino, lontano anni luce dal precedente, riposava Silent Hill con circa 9 milioni. Da qui in poi l’abisso: si stimava che Amnesia: The Dark Descent, considerato da tutti seminale proprio per la ripresa del mercato, avesse distribuito appena due milioni di unità. Poco meno dell’osannato Dead Space. Ordini di distanza enormi, che dipingevano una categoria estremamente disgiunta fra aspettative e base utenti disposta a sostenerne il battito.  Numeri che impallidiscono se confrontati con altri generi videoludici, con le sempre crescenti aspettative dei tripla-A e soprattutto con certe sleeper hit venute da lí a poco: nel 2018 Red Barrels festeggiava i 15 milioni di copie della saga Outlast, mentre Scott Cawthon per l'appunto pubblicava l’ennesimo spin off di FNAF dopo averne piazzate circa la metà in meno di quattro anni. Come nel cinema, anche l’horror da mouse e tastiera respira grazie al singolo guizzo e ad un rapporto ricavi:costi potenzialmente gigantesco. Provarci, oggi, costa veramente poco. 

Non ho bocca e devo urlare

Che si tratti di letteratura, cinema, videogame o persino della psiche umana, la paura si fonda su un singolo principio: siamo terrorizzati da ciò che non conosciamo. Sul piano sensoriale, ciò che ci spaventa può essere tanto un’entità concreta quanto un aspetto puramente astratto: è la differenza tra l’aracnofobia e quella precisa sensazione di disagio che proviamo passeggiando soli di notte in un luogo sconosciuto. Se la prima è più facile da replicare nei media, l’atmosfera creata da qualcosa di indefinito raggiunge un livello di complessità quasi illimitato quando deve essere rappresentata. Senza scomodare teorie metafisiche sulla 'percezione universale', il massimo che si può fare è approssimare quelle sensazioni e godersi il risultato.

È uno dei motivi per cui ricordiamo il valore de L’esorcista, Silent Hill o Il Popolo dell’Autunno rispetto a opere che puntano sul solo jumpscare. La costruzione di un’atmosfera indelebile lascia un’impronta profonda su chi ne fa esperienza, creando un legame viscerale con l’autore che ha suscitato certe emozioni. Questo distacco dalla pura ricerca emotiva si scontra ancor di più con le radici sperimentali dell’horror, soprattutto quello indipendente. La paura è una risorsa potentissima, declinata con successo in centinaia di forme: dall’orrore della guerra in 1916, all’accettazione del dolore in Omori, passando per il puro astrattismo di Paratopic, la psicopatia estrema di Anatomy o la depressione autodistruttiva di The Cat Lady, solo per citarne alcuni.

Il polso dell'horror indipendente
Haunted Bloodlines

Anche quando il genere è utilizzato in chiave metanarrativa, come in Doki Doki Literature Club o Spooky's Jump Scare Mansion, è la creatività a emergere, non un singolo trucco. Queste opere creano un complesso diorama di suoni, immagini e interazioni, spesso senza un catalizzatore definito per le paure. La paura è, dunque, un linguaggio in continua evoluzione, adattandosi a chi la percepisce e a chi la crea. Nell'epoca attuale, in cui la tecnologia offre livelli di immersione senza precedenti, la vera sfida è manipolare queste nuove dimensioni sensoriali per evocare emozioni autentiche. Le vibrazioni di un suono lontano, un glitch visivo o un cambiamento impercettibile nello scenario possono essere tanto efficaci quanto un urlo improvviso o una creatura nascosta. Ma ciò che distingue davvero un’opera horror memorabile è la sua capacità di insinuarsi sotto la pelle, lasciando un’impronta duratura anche dopo che lo schermo si è spento o il libro è stato chiuso. In fondo, l’orrore più grande non è quello che ci grida contro, ma quello che sussurra, spingendoci a riflettere su paure che non sapevamo di avere. 

Siamo già alla final girl?

Dunque come sta questo fatidico mercato degli horror indipendenti? All’apparenza non si è mai sentito meglio. Se prendiamo in esame l’homepage di Itch.io (vera e propria fucina di piccoli team o progetti singoli) non è difficile notare una tracotante abbondanza del genere. Entrando in dettaglio, il database del tag horror conta circa 49mila risultati, di cui 1200 pubblicati negli ultimi 30 giorni. Ordinandoli per uscita vi basterà scorrere la pagina per delineare dei blocchi tematici talmente granitici da strapparvi un sorriso: in ordine troverete i loop alla PT, i multiplayer in stile Phasmophobia e infine i sopracitati Mascot Horror, con il nascente filone low-poly / PS1 pronto a soppiantarli appena scoppierà qualche specifico titolo.

Persino nel caos organizzativo che é il negozio Steam potrete riconoscere gli stessi trend, compatti e magmatici come fossero sbarramenti imposti dal governo mondiale. Per quanto ci si sforzi di difenderlo, bisogna scendere a patti con il più grande pregiudizio sull’ambiente: nella sua forma più scarna, l’horror è il genere più semplice in assoluto da produrre, sia nei costi, sia nei tempi. Tolta la scrittura, tolta la creatività, rimane una formula estremamente economica da ricalcare. Quello che un tempo era una prateria di sperimentazione selvaggia si è trasformato in una landa incolore di zombie, in cui anche i big tentano di sguazzare (Silent Hill: Short Message, non mi sono dimenticato di te). Come tutti i paradossi, anche questo si chiude esattamente dove si era aperto, ovvero con “i grandi” a tentare di estrarre una goccia di innovazione: Alan Wake 2, Amnesia: The Bunker, Son of The Forest e Dead Space Remake, tutti usciti a distanza ravvicinatissima fra loro e chiaramente infarciti di tentativi, di voglia e (perché no?) anche di mancanze. Forse ci vuole solo pazienza, o nel frattempo basta mettersi a scavare: di Iron Lung, Signalis, FAITH e Voidness ne esistono eccome, nascosti in campo aperto dietro alla barra di ricerca. Sperando che nel frattempo l’industria non trovi un modo per mangiarsi anche loro.

 

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