Io, me e Arkane
Pensavo fosse amore, invece era solo Prey
Allora, le cose sono andate più o meno così: mi è stato proposto di fare una serie di articoli dedicati a Prey, quello del 2017 di Arkane. Praticamente un post mortem a puntate in cui, oltre che parlare della storia dello sviluppo, si analizzavano le influenze subite e create, con tanto di recensione postuma. Perché, la ciliegina sulla torta di tutto il pacchetto era che io Prey ancora non lo avevo giocato, quindi avrei visto tutto per la prima volta. Sarei stato un verginello di Talos I, assetato di Neuromod e poltiglia di Typhon, pronto a compiere il grande balzo evolutivo verso la forma di tazza da caffettone. E l’ho fatto! Ho attraversato più volte la stazione spaziale della TranStar! Con un cannone che sparava colla! Ottenendo poteri alieni! Quindi questo è il primo articolo della serie post mortem? No! Perché Prey non mi è piaciuto.
Non sei tu, sono io
Fermi tutti! Il fatto che non mi sia piaciuto non significa che lo reputo un gioco brutto o con problemi. Infatti, non spiegherò perché non mi è piaciuto e quindi non dovrebbe piacere anche a voi. Anche perché, nemmeno se fossi su Internet Explorer sarei giustificato a farlo sei anni dopo.
Quello di cui vorrei scrivere è una sorta di autoanalisi, tipo soliloquio all’Alcolisti Anonimi, perché quanto successo con Prey non è la prima volta che succede. Era già accaduto con Dishonored. Vedete bene che le due casistiche hanno un lampante elemento in comune, che sarà al centro dei prossimi paragrafi e per il quale mi sono messo a riflettere su un certo modo di fare i giochi. Il tutto potrebbe essere introdotto con un: “Ciao, mi chiamo Davide e non mi piacciono i giochi Arkane”.
La cosa schizofrenica è che non mi piacciono solo quando ho il pad in mano. Perché per tutto il resto li trovo gran belli. Dishonored, per dire, l’ho seguito fin dal suo annuncio, prenotando la limited edition. Ero talmente convinto che dovesse piacermi che dalla sua pubblicazione ad oggi l’ho comprato tipo quattro volte (Xbox, PlayStation, versione Definitive ecc), finendolo solo nel 2021. Bestemmiando, fra l’altro. Però la sua estetica, la sua idea, la sua grafica, mi piacciono ancora moltissimo.
Per Prey vale lo stesso. L’ucronia creata dagli anni Cinquanta in poi è molto interessante (giocano facile, lo ammetto, mi piacciono tutte le ucronie), così come tutte l’estetica da fantascienza decò, al limite del DIY. Ho passato più tempo a leggermi gli approfondimenti, le note e ad ascoltare gli audio che non a liberare Talos I dai Typhon. Senza contare che ho trovato alcune delle storie nascoste nella stazione più interessanti di quella principale.
Perché quindi, alla fine ho come ricordo maggiore un senso di frustrazione, imprecisione se non noia? Qual’è l’ingrediente utilizzato da Arkane per i suoi giochi che mi lascia un retrogusto amaro? È un solo ingrediente o la commistione fra molti? Ci ho pensato per settimane, perché trovo affascinante il fatto che ci siano dei giochi che non ci possono piacere. Non dico titoli appartenenti a generi che sappiamo essere lontani dai nostri gusti – nel mio caso i JRPG -, od opere che hanno caratteristiche prioritarie che tengono lontani alcuni giocatori in virtù di esse, come può essere la difficoltà dei giochi From Software, nonostante abbiano tutti un setting incredibilmente affascinante. Parlo di esperienze perfettamente rientranti nei requisiti delle nostre liste desideri, che però non riescono a far cadere l’ultima tessera del domino dell’amore verso quel gioco. Non sono giochi brutti, la critica e il pubblico li elogiano, ce ne rendiamo conto, condividiamo in linea di principio, ma con noi non funzionano.
Prey ad esempio: è uno sparattutto in prima persona, ha un’ambientazione fantascientifica, antepone la narrazione al gameplay, esteticamente accattivante e diverso dai tanti Generic War FPS che girano. Tutte cose che collimano alla perfezione con quello che cerco in un gioco. Però, quando sono entrato nell’ufficio di Alex Yu e mi son sentito dire che l’esercito aveva appena invaso la stazione di Talos I, ho sentito che non ne avevo più, che era per me giunto il momento di fermarmi. Stanco? Un po’, ne parleremo. Deluso… anche, ma non so bene da cosa. Posso provare a capirlo però.
Vivisezione di un mancato innamoramento
Partiamo dall’elemento macroscopico. No, anzi: velocissima premessa. Quando segue è legato alla soggettività di chi scrive, non è un giudizio della serie “ecco perché non dovrebbero piacervi i giochi Arkane”. Piuttosto è un esercizio di autoanalisi che può essere utile nel capire come, grazie al cielo, ciò che ci piace non può essere creato a tavolino, perché siamo fatti di infinite variabili.
Dicevamo: partiamo dall’elemento macroscopico. Prey è un gioco lungo e questo è un problema nel momento in cui è anche un gioco largo.
Si tende sempre a parlare di giochi lunghi come di quei giochi che richiedono un certo quantitativo di ore. Un quantitativo che può essere ritenuto normale solo dalla struttura psichica di un cervello adolescenziale. Il cervello adulto, messo di fronte ad una tale richiesta di tempo arretra sconfitto e stanco. Però questa descrizione non tiene conto del fatto che ci sono gioco effettivamente lunghi e giochi che potrebbero essere lunghi, ma che in realtà sono larghi. Esempio: Bioshock è un gioco lungo. Offre collezionabili da ascoltare per approfondire la storia, ma è molto difficile che il monte ore aumenti a dismisura nel momento in cui si decide di esplorare tutto. Nonostante ciò, le sue dodici ore abbondanti le richiede.
The Elder Scrolls: Skyrim è un gioco largo. Pensateci: se decideste di fare solo la storia principale quanto durerebbe? Però il conteggio delle ore alla fine della vostra partita è probabilmente maggiore in rapporto esponenziale.
I giochi lunghi sono giochi che accompagnano su un percorso più o meno stretto i giocatori per molto tempo. Doom Eternal è un gioco lungo.
I giochi larghi sono i giochi che permettono al giocatore di rimanere al loro interno per molte più ore del previsto, in quanto il mondo di gioco, se esplorato, amplia l’esperienza in diversi aspetti. Prey è un gioco largo.
Inizio a pensare, però, che queste due caratteristiche non vivano bene insieme nel momento in cui non coesistono in un equilibrio tendente all’inversamente proporzionale
Un altro aspetto, riscontrato questa volta su Dishonored, che spesso mi porta a maturare un pregiudizio nei confronti dei giochi, è la punizione morale delle azioni. Il fatto che giocando in un certo modo c’è il finale buono e giocando in un altro il finale cattivo. Soprattutto se l’ago della bilancia fra i due è influenzato in modo molto superficiale perché basato sul concetto di bene assoluto e puro, come in Dishonored. Il fatto che mi siano dati dei poteri mirabolanti ma che il loro utilizzo sia subordinato ad un elemento morale, di fatto limita l’esperienza. Magari inconsciamente, magari no. Per dire: mi piacerebbe poter avere una statistica proveniente da una realtà parallela dove Hogwarts Legacy ha un sistema di morale.
Quanti giocatori avrebbero cercato, sbloccato e utilizzato le maledizioni senza perdono? Quante volte, in un certo gioco avete salvato la partita, fatto le peggio cose e poi ricaricato il salvataggio per evitare che le conseguenze di tali azioni influenzassero l’esito finale? E attenzione, il paragone con la vita reale non tiene in questo caso, perché il punto di partenza è un alterego dotato di capacità e strumenti fuori dal comune, per la maggior parte delle volte votati alla violenza. In Dishonored, di fronte ad un colpo di stato autoritario e repressivo il giocatore veste i panni di un sicario armato di tutto punto, non di un attivista capace (volendo) di attivare la popolazione per ribellarsi. Però, nel momento in cui inizia, gli viene detto più o meno chiaramente che l’utilizzo degli strumenti a sua disposizione comporta un costo in termini di esito. Per dire: vi piacerebbe se in Forza Motorsport il vostro punteggio in classifica fosse penalizzato dal fatto che utilizzate auto con combustibili fossili al posto di quelle elettriche? Giochereste allo stesso modo?
Torneremo in futuro a parlare di questo aspetto, che è molto interessante ma anche molto sfaccettato. Partiremo da quello che reputo un errore clamoroso fatto in Spec Ops: The Line e vedremo come l’elemento morale impatta nell’esperienza dei giochi. Non oggi però, il discorso di gioco lungo e largo vale anche per gli articoli (che poi mi telefona la prof del liceo per dirmi che sono andato fuori traccia ancora una volta).
Passiamo ora agli elementi più triviali, tornando su Prey: i nemici. Sfido qualcuno a dirmi che i nemici di Prey sono interessanti e ludicamente intriganti. Partendo dai piccoli polipetti neri, capaci di trasformarsi in qualsiasi cosa, ma incapaci di capire che sono poche le scrivanie con due sedie, le stanze con due estintori vicini e, in linea di massima, assai rumorosi, e arrivando ai più grossi di loro che vagano senza scopo fino a quanto non vedono il giocatore. A quel punto lo attaccano sempre allo stesso modo a causa del fatto che le differenze fra loro sono molto limitate. Anche l’Incubo, la teoretica bestia nera del gioco, è un visitatore occasionale che può essere gabbato anche solo andando in uno spazio a lui troppo stretto. Ecco, i nemici di Prey non brillano certo in termini di personalità e intelligenza, e questo porta ad una svalutazione di tutti gli strumenti a disposizione. Nulla a che vedere con i Big Daddy di Bioshock, con i quali ogni scontro era una goduria (ancor di più se andiamo a parlare della Big Sister di Bioshock 2). Perché avere infiniti poteri cosmici in un minuscolo umano orbitale quando il nemico è un’ombra di quello che potrebbe essere un avversario temibile?
La risposta è nell’ulteriore punto che Prey, e anche Dishonored, mettono in luce della filosofia Arkane: puoi fare tutto quello che vuoi, ma sarebbe meglio se lo facessi in silenzio. In buona sostanza, appare abbastanza evidente che il fine ultimo del gameplay di Arkane sia quello di evitare lo scontro, o se proprio non è possibile, affrontarlo con l’effimera presenza da rogue. Né Dishonored, né Prey sono calibrati per sostenere i giocatori che entrano nelle arene a testa bassa. Proprio in termini economici e di ritmo. I due titoli in discussione danno il meglio di sé quando si opta per la strada alternativa, per il guizzo di furbizia. Però, non ostacolando attivamente le strade alternative se non con un implicito “te l’avevo detto” quando il risultato è molto meno elegante di quello immaginato, trasmettono un senso di libertà mutilato.
Concludo la disamina con l’ultimo elemento che cozza con il mio Io Giocatore: i giochi dove devi costruire la tua strada mi hanno sempre creato un po’ di ansia da FOMO. Tipo che c’è sempre una soluzione più elegante, soddisfacente e migliore di quella che metto in pratica. In Doom Eternal, che più volte ho definito un rhythm FPS, sono capace di ripartire svariate volte dal checkpoint se non mi ritengo soddisfatto del flow dell’azione. Capite quindi che un titolo come Prey, in cui posso affrontare lo scontro in molti modi, l’idea di aver preso le cose nel verso non perfetto mi spinge, sul lungo termine, a non fare nulla in ordine. Della serie: meme che rovescia il tavolo.
Però rimaniamo amici
Detto questo, fra un paio di mesi arriverà un nuovo gioco Arkhane, Redfall. Visto quanto ho appena scritto sarebbe lecito pensare che ho imparato la lezione e che non lo proverò. Invece non sarà così, perché ho voluto tenere per ultimo un grande complimento, un ultimo ingrediente che è così diffuso nelle ricette di Arkhane da spingermi ad assaggiare comunque le loro preparazioni: la personalità. Da Dishonored a Deathloop, passando per Prey, Arkhane ha sempre mostrato voglia di fare qualcosa di diverso. Magari raccogliendo influenze da altrove, ma cercando sempre di preparare una ricetta tutta personale. Per questo motivo avrò sempre il coraggio di provare i loro giochi, nella speranza che, prima o poi, una delle loro portate incontri i miei gusti.