Nosferatu: l’ombra del vampiro sui videogiochi

A distanza di poche ore dall'uscita del Nosferatu di Robert Eggers, ripercorriamo la carriera del Vampiro per eccellenza nei videogames

Nosferatu lombra del vampiro sui videogiochi
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Nosferatu non è solo un vampiro. È un simbolo, un’idea, un’ombra che silenziosamente si aggira tra le pagine della storia del cinema. Ma oltre a tutto ciò, Nosferatu è in primis un astuto sotterfugio, un’invenzione praticona per eludere la già stringente regolamentazione sui diritti d’autore. Andò malissimo: il tribunale tedesco ordinò di bruciare tutte le copie entro lo stesso anno solare. Oggi chiunque può produrre opere su Dracula, al punto che persino contare i soli adattamenti cinematografici è una sfida a sé, ma nel primo dopoguerra lo scenario era diverso.  Quando Friedrich Wilhelm Murnau lo portò sullo schermo nel 1922 Bram Stoker era morto da appena un decennio.

Il cineasta tedesco non si limitò a creare un semplice mostro, ma un incubo tangibile, una figura così radicata nell’immaginario collettivo da sopravvivere per oltre un secolo. Con il suo sguardo vuoto, il corpo emaciato e quei denti sottili che sembrano più spilli che zanne,  il Conte Orlok ha attraversato epoche, ritornando ciclicamente grazie a interpretazioni come quella di Klaus Kinski nel remake di Werner Herzog del 1979 o, nelle prossime settimane, grazie al capolavoro annunciato di Robert Eggers. Il suo terrore è senza tempo, e proprio per questo quasi impossibile da riproporre. Mentre il cinema ha saputo a sprazzi rendergli onore, i videogiochi sembrano averlo accolto con meno entusiasmo, come una figura troppo complessa o inadatta ai tempi. In più di 40 anni di medium interattivo, i tentativi di adattamento si contano sulle dita di una mano. Anzi, molto meno… 

Nosferatu: l’ombra del vampiro sui videogiochi

NOSFERATU: UN CLASSICO IMPERFETTO

Pubblicato nel 1994 per Super Nintendo, Nosferatu è un action platform che mescola atmosfere gotiche a un gameplay squisitamente beat-em-up. Il grande riferimento in questo ambito è Prince of Persia, che solo cinque anni prima aveva travolto il mercato con la precisione delle sue animazioni e un grado di raffinatezza raramente visto sui PC di fine anni ‘80. SETA Corporation attinge a piene mani dal capolavoro in rotoscoping dei fratelli Mechner, spostando l'ambientazione dal sognante medio oriente ad un glaciale Est Europa. La trama è essenziale, quasi arcaica: Kyle, il protagonista di cui vestiremo i panni, si avventura nel castello del Conte per salvare l’amata Erin, rapita proprio dal vampiro. Nulla di particolarmente originale per il periodo, se non per l’arma prescelta dal nostro eroe: non una frusta come la famiglia Belmont di Castelvania, o una generica spada come cento altri beat-em-up fantasy, ma solo le ruvide nocche delle nostre mani.

Zombie, fantasmi, gargoyle, robot, lupi mannari e molto altro, tutti pronti a cadere di fronte alle nostre combinazioni di pugni. Non è un gioco che ti prende per mano, tutt'altro: i controlli sono precisi ma estremamente esigenti, richiedendo movimenti calcolati al millimetro, e ogni incontro con i nemici è una sfida. “Difficile” non è abbastanza per definirne il loop di gameplay: se le fasi picchiaduro lasciano al giocatore un minimo spiraglio temporale per assorbire le meccaniche, il platforming invece non permette errore. Nel castello del Conte si salta e si esplora soprattutto in orizzontale, ma é proprio in quei pochi momenti di verticalizzazione che il level design gonfia a dismisura la frustrazione di chi tiene il pad in mano. Mai più adatto fu il termine “pixel perfect”. Molti colpi non andranno nemmeno a segno, persi per sempre nel limbo fra hitbox e animazioni. 

Nosferatu: l’ombra del vampiro sui videogiochi

A rendere memorabile il gioco non sono la trama né il gameplay, ma la sua atmosfera. Nonostante i limiti tecnici dell’epoca, Nosferatu riesce a evocare un mondo oscuro e inquietante: il castello è un labirinto di corridoi tetri, illuminati da fioche candele e invasi da un senso di pericolo costante. Ogni pixel sembra studiato per immergerti in una realtà opprimente, dove la tensione nasce non tanto dal salto spaventoso, quanto dall’attesa di ciò che potrebbe accadere. Ciò che traspare è una cura maniacale per i particolari, tipica degli studi nipponici del periodo, in grado di sfruttare ogni possibilità fornita dalle nuove console. Ciascuna stanza del castello potrebbe essere un quadro a sé, ogni cutscene riesce nell’intento di spiegare le circostanze senza bisogno di dialoghi e persino la schermata di game over nasconde dei segreti da scoprire dopo la trecentesima visione.

Il celebrato chipset S-APU della seconda console Nintendo non delude nemmeno in questa occasione, regalandoci una colonna sonora delicata ed evocativa, perfetta per arricchire le fasi più concitate. È un’esperienza che premia la pazienza e l’attenzione ai dettagli, ma che non ha mai raggiunto il successo che meritava, finendo relegata al ruolo di cult tra i pochi appassionati che non si sono lasciati abbandonare alla frustrazione.. Eppure, esattamente come il film da cui riprende il titolo, anche la cartucciona SETA utilizza il nome Nosferatu come sotterfugio: l’intero immaginario é molto più vicino alla Transilvania che all’espressionismo tedesco, con le raffigurazioni del Conte ben distanziate dalla mostruosità di Murnau. Paura degli avvocati di Konami? 

WRATH OF MALACHI: IL TERRORE IN PRIMA PERSONA

Passeranno ben nove anni prima di rivedere quel nome sulla box art di un videogioco. È il 2003, siamo nel pieno della golden age degli FPS tridimensionali e nei negozi arriva il secondo titolo di una piccola software house svedere. Nosferatu: Wrath of Malachi è un survival horror in prima persona con enormi ambizioni e premesse, potenzialmente in grado di rivoluzionare il genere. Piccola nota per gli appassionati di disastri videoludici: sì, è la stessa Idol FX colpevole del famigerato Drake of the 99 Dragons, considerato da molti come uno dei peggiori videogame di tutti i tempi.

Nosferatu: l’ombra del vampiro sui videogiochi

Ma quella Idol FX è lontana; questa Idol FX si presenta al pubblico colma di speranza e idee innovative. Il giocatore veste i panni di James Patterson, in viaggio verso la Transilvania per il matrimonio della sorella Rebecca. La lieta occasione si trasforma però in disastro quando il protagonista scopre le reali intenzioni del Conte ed è chiamato a salvare i membri della propria famiglia per prevenire la risurrezione del demone Malachi. Il tempo è però il vero antagonista: ogni parente ha un conto alla rovescia che, una volta scaduto, ne segnerà la morte definitiva, ma una volta portati in salvo ci regaleranno nuove abilità. Lo stesso castello viene inoltre generato proceduralmente all’inizio della partita: un luogo di terrore pregno di corridoi angusti, suoni inquietanti e nemici che appaiono all’improvviso, realizzato purtroppo solo parzialmente. Wrath of Malachi è un gioco crudo, privo di fronzoli, che punta tutto sul senso di urgenza e sull’atmosfera, lasciandosi alle spalle numerosi buchi di gameplay.

La stessa proceduralità che lo distingue dalla massa ne è sfortunatamente anche il più grande problema, con un level design lasciato in balia del caos, di stanze mezze vuote e ripetitive. Un problema che si aggrava soprattutto mentre portiamo a termine l'obiettivo principale, costringendoci ad accompagnare i parenti liberati attraverso la labirintica architettura creata dalla CPU, in una serie di escort mission predestinate a terminare in tragedia. Il gameplay puro, che alterna combattimenti con armi tradizionali a strumenti sacri come croci e paletti, è estremamente semplificato e non completamente rifinito: hitbox mal tarate, un sistema di stamina fuori posto e animazioni d’attacco approssimative lo allontanano da quelle velleità da shooter puro che tentano di emergere in altre sezioni. 

Vale dunque la pena recuperarlo, considerato anche i numerosi problemi di compatibilità (supporto widescreen, v-sync, etc) tamponabili solo tramite mod? L’intero gioco si regge in piedi su pochi ma ben posizionati stuzzicadenti, chiedendo fiducia e pazienza a chi lo guarda dall’altro capo dello schermo. Dietro ad una coltre affannante di eurojankiness (traducibile con “approssimazione europea”) si nasconde però tantissimo amore per l’immaginario goth. L’estetica del castello è ancora oggi ottima, aiutata da quella grana visiva tipica proprio dei primi film muti. L’illuminazione ambientale degli scenari, specialmente attraverso finestre e cavedi, è tecnicamente strabiliante, figlia di un periodo ormai lontano in cui ogni studio (anche il più piccolo) sviluppava anche il suo engine proprietario. Le cutscene e la sceneggiatura trasudano passione per la fonte,  senza mai fermarsi di fronte all’esilarante doppiaggio “british”. Persino il game design, pur fallendo parzialmente le premesse d’ingaggio, lascia intravedere esempi di progettazione pratica in cui conta più la logica dell’obiettivo. Un esempio? Le pistole a pietra possono essere raccolte in serie per passare rapidamente da una all’altra invece di attendere la lenta ricarica. Tutti dettagli che potrebbero non bastare a far redimere due giochi complessi da giudicare, ma perfetti per donargli qualcosa che sempre più manca nell’attuale orizzonte videoludico: carattere.

 

 

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