Il polso dell’horror indipendente

L'evoluzione dei gusti personali in un'epoca di incertezze sociali e culturali, l'industria dei videogiochi horror indie e la tendenza emergente di "mascot horror".

di Marco Cella

In quello che si appresta ad essere un quarto di secolo all’insegna delle incertezze sociali e culturali, i gusti personali hanno assunto il ruolo di pilastro a cui aggrapparsi. Non più semplice fonte di svago e riempitivo, ma concreto carattere fondante usato per descriverci agli altri fino all’ultimo dettaglio. Sono certo che mi piacciano il post-rock, la letteratura di fine novecento e il cinema europeo; eppure quando mi viene chiesto “cosa ti piace giocare?” non so più così sicuro di cosa dire. Qualche anno fa avrei risposto senza troppe remore “i giochi horror, soprattutto indie”, frase che oggi non potrei mai pronunciare senza far seguire un pretenzioso “...ma non quegli horror indie, gli altri…”.

Il sottobosco indipendente ha subito degli smottamenti enormi nell’ultimo decennio: da pura nicchia PC a vero e proprio mercato parallelo, da angolo informe dell’Xbox Live Marketplace a prima punta dei servizi in abbonamento, da nido di progetti one man band a vera e propria filiera developer/publisher. Un ambiente che nell’anno peggiore per le software house tripla A riesce comunque a mantenere quella facciata candida verso l’utenza, una spiaggia argentea in cui (apparentemente) certe scorie ancora non sono arrivate. L'utenza, esattamente come il concetto stesso dietro al termine -indie-, è mutata profondamente: numeri diversi, standard diversi, obiettivi diversi, in cui molto spesso il vecchio viene lasciato indietro per tentare di raggiungere un bacino giovane, alto spendente e potenzialmente immenso. Ed è proprio su queste premesse che si innesta il fenomeno dei mascot horror.

Hello Neighbour, Poppy Playtime, Garten of Banban, Bendy and the Ink Machine, Circus of TimTim, Amanda the Adventurer, Tattletail, Playtown, Toytopia, Rainbow Friends, Amanda The Adventurer, e (credetemi) moltissimi altri. Mentre scrivo questo elenco sono conscio di commettere il primissimo errore della scrittura creativa, ma non c’era altro modo per farvi sperimentare l’effetto slavina che sta vivendo il genere degli horror indipendenti. Urban Dictionary definisce Mascot Horror come:

“Un sottogenere dell'horror spesso creato per attirare il pubblico più giovane, caratterizzato da una mascotte riconoscibile (solitamente commerciabile).”

e possiamo tracciarne la prima apparizione in seguito all’uscita del capostipite Five Nights at Freddy's. Ancora lontani dagli innumerevoli sequel, spin-off e adattamenti più o meno professionali, il gioco di Scott Cawthon diventa una vera rivoluzione per l’industria, uno di quei titoli nati dalle macerie di decine e decine di fallimenti e cresciuti organicamente solo grazie alla forza del passaparola online. Era l’internet dei let’s play fatti in cameretta, con luci spente, reazioni spropositate e sottotitoli sovraimpressi dallo stesso autore perché YouTube ancora non li supportava. Un ecosistema rivoluzionario in grado di far guadagnare milioni di dollari a un progetto dal budget talmente rado da diventare inquantificabile. Ma se da un lato i fenomeni alla Blair Witch (per tracciare un parallelismo con il cinema) riescono ad iniettare linfa economica nel mercato di riferimento, involontariamente si ritrovano ad imporre una cifra stilistica a chi di questo mercato vorrà farne parte a tutti i costi. Cos’ha funzionato in Five Nights? Possiamo ricavarne dei precisi elementi estetici e di gameplay? Riusciamo a confezionarci intorno uno scenario riempitivo appena appena differente?

La lista di giochi in apertura di paragrafo racconta lo scenario monocolore che oggi ci troviamo davanti unendo le parole “indie” e “horror”, perlomeno nella maggioranza dei casi. L’appiattimento concettuale del mascot horror è da ricercare nella sua stessa formula: jumpscare. meccanica “scappa dal mostro”, antagonista principale strettamente legato all’immaginario puerile di giocattoli e pupazzi, con un generico twist demoniaco. Uno schema semplice da replicare su larga scala, perfetto per accalappiare la sempre più breve soglia dell’attenzione infantile ed essere declinato con altissimo margine. E così sugli scaffali di Walmart troviamo le action figure di Bendy, al cinema il film di FNAF e online gli NFT di Poppy. È una storia vecchissima quella del conflitto tra qualità produttiva e ricerca del profitto, un paradigma che si può applicare a tutte le forme espressive in cui c’è ampia potenzialità di ricavo economico (e viceversa). Ciò che però accade nel mondo dell’horror è particolarmente interessante.

Che si tratti di letteratura, cinema, videogame o persino di psiche umana, la paura si fonda su un singolo dogma: siamo spaventati da ciò che non conosciamo. Declinandolo sul piano sensoriale, a farci paura possono essere sia una singola entità, sia l’atmosfera che ci circonda: ad esempio, è la differenza fra la fobia dei ragni e la sensazione di disagio quando siamo da soli di notte in un luogo sconosciuto. La seconda è ovviamente più difficile da costruire rispetto alla prima, ma ha il grande vantaggio di rimanere impressa molto a lungo: anche per questo ci ricordiamo L’esorcista, Silent Hill o Il Popolo dell’Autunno e non altre produzioni basate sul jumpscare. Non solo per la differente qualità esecutiva, ma anche per le profonde e spesso iperspecifiche sensazioni che gli autori sono riusciti a costruire sapientemente con trama, narrazione, inquadrature e molto altro. Questo allontanamento dalla ricerca atmosferica cozza ancora di più con le radici puramente sperimentali dell’horror, specialmente quello indipendente. La paura è un'arma potentissima che è stata declinata con successo in centinaia di sfaccettature: l’orrore della guerra in 1916, l’accettazione del dolore in Omori, il puro astrattismo di Paratopic, la psicopatia estrema di Anatomy o la depressione autodistruttiva di The Cat Lady solo per citarne alcuni. Persino quando si utilizza il genere come spunto meta (ad esempio in Doki Doki Literature Club o Spooky's Jump Scare Mansion) è la creatività a guadagnare i riflettori piuttosto che un singolo gimmick.  Un complesso diorama di suoni, immagini e interazioni in cui potrebbe benissimo non esserci nemmeno un catalizzatore specifico di queste paure.

L’altro lato della medaglia, quello più pragmatico e consumista, brilla però fortissimo quando prendiamo in esame la povera economia del genere. A farla da padrone nella classifica all time è ovviamente Resident Evil, forte di oltre trenta capitoli e circa 120 milioni di copie distribuite sui vari sistemi. Silent Hill lo segue distantissimo con 9 milioni, e dopo cadiamo nell’abisso, sia in termini di informazioni che vendite. Un titolo seminale come Amnesia: The Dark Descent si stima abbia venduto circa 2 milioni di unità, poco meno del primo Dead Space. Numeri che impallidiscono se confrontati con altri generi videoludici, con le sempre crescenti aspettative tripla-A e soprattutto con certe sleeper hit di recente memoria. Nel 2018 Red Barrels festeggiava i 15 milioni di copie della saga Outlast, mentre Scott Cawthon per l'appunto pubblicava l’ennesimo spin off di FNAF dopo averne piazzate circa la metà in meno di quattro anni. Un rapporto ricavi:costi gigantesco per lo standard di settore, per chi riesce a indovinare il trend. Tanti ci provano, pochissimi ci riescono.

Dunque come sta questo fatidico mercato degli horror indipendenti? All’apparenza non si è mai sentito meglio. Se prendiamo in esame l’homepage di Itch.io (vera e propria fucina di piccoli team o progetti singoli) non è difficile notare una tracotante abbondanza del genere. Entrando in dettaglio, il database del tag horror conta circa 49mila risultati, di cui 1200 pubblicati negli ultimi 30 giorni. Una volta confrontato con la moda del momento otteniamo però un’amara rivelazione: dopo i loop alla PT, i multiplayer in stile Phasmophobia e i mascot horror è il turno del filone lowpoly // PS1 con texture in bassa risoluzione e noise filter e conta poligonale in grado di stare sulla dita di una mano. Ebbene sempre nell’ultimo mese ne sono apparsi oltre seicento, esattamente la metà del totale. Su Steam la situazione non è molto divergente, per quanto più difficile da tracciare, ma sempre caratterizzata da una sovrabbondanza di fast games creati in fretta e furia per rincorrere il trend attuale.

Per quanto ci si sforzi di difenderlo, bisogna scendere a patti con il più grande pregiudizio sull’ambiente: nella sua forma più scarna, l’horror è il genere più semplice in assoluto da produrre, sia nei costi, sia nei tempi. Tolta la scrittura, tolta la creatività, rimane una formula estremamente economica da ricalcare in quantità industriali. C’è solo da guadagnare. Quello che un tempo era un universo di selvaggia innovazione si è trasformato in una landa incolore di zombie, in cui anche i big tentano di sguazzare (si guardi il tutt’altro che riuscito Silent Hill: Short Message). A chiudere il paradosso è proprio il regno “dei grandi”, in cui ad osare sono proprio le produzioni con mire più elevate: Alan Wake 2, Amnesia: The Bunker, Son of The Forest e Dead Space Remake, tutti usciti a distanza ravvicinatissima fra loro e definiti da una forte spinta di rinnovamento. Oppure bisogna saper aspettare: di Iron Lung, Signalis, FAITH e Voidness ne esistono eccome, basta solo avere la pazienza di cercare a fondo. E sperare che nel frattempo l’industria non trovi un modo per mangiarsi anche loro.