Red Dead Redemption 2: far pace con la Frontiera
La dicotomia tra modernità e tradizione, utilizzando come punto di partenza il videogioco Red Dead Redemption 2 per esplorare questi concetti.
"In che senso dovete pagare per entrare in spiaggia?"
Chelsey sgrana gli occhi color pece mentre me lo chiede. Un sorriso confuso compare sul suo viso illuminato dal sole. Se il GPS avesse anche solo un briciolo di ricezione ci direbbe che siamo quasi arrivati a quel che rimane di Caliente, paese abbandonato nella terra di nessuno: cinquanta chilometri dal primo centro abitato, circa tre ore di strada per arrivare alla sempre più decadente Città degli Angeli, poco meno di sessanta persone a sostenere la microeconomia di questo altopiano baciato da California e Nevada.
Siamo in sella da quasi quaranta minuti.
All’inizio della fila scorgo Alessia, la mia compagna, mentre abbozza qualche chiacchiera culinaria con un altro turista tedesco. Una dolce carezza a Strawberry, la grigia e silente cavalla assegnatale per questo fine settimana: qualche incoraggiamento ad andare avanti, sempre più in profondità nella Sierra disabitata. In fondo alla valle si vede la mandria del ranch riunita intorno ad un rivolo d’acqua. William stamane ha portato i capi al pascolo; lo fa ogni mattina da oltre vent’anni, esattamente come suo padre prima di lui e tutti i suoi fratelli.
Una catena di montaggio puntualissima, in cui tutte le famiglie del quartiere collimano verso un quieto vivere che si è lasciato alle spalle le incombenze dei secoli passati, gli uragani selvaggi e i giudizi dei passanti. Qualcuno li guarda da lontano come alieni fuori tempo massimo, altri come sopravvissuti da ammirare con un pizzico di invidia. Il tempo singolare, per loro, non esiste. Si respira all’unisono come un unico polmone, generazione dopo generazione. Eppure ricordano tutto: i nomi dei trisnonni, le storie più o meno tragiche che li hanno colpiti e quello che non hanno vissuto in prima persona.
“Chelsey! Giriamoci e rientriamo, devo ancora finire i bagagli”
É la sorella minore. Stasera deve partire alla volta di San Diego per i finals di biologia:
“Strano” penso fra me e me “non sapevo gli esami si facessero anche di sabato”.
In quel momento mi blocco: domani non é sabato. Domani è martedì.
A domani non sto pensando da giorni.
La frontiera transatlantica nell’immaginario europeo è un luogo di passaggio. Un trampolino perfetto su cui costruire dei ben precisi binari verso il progresso, il mustang da domare prima di correre fino all’ultimo confine calpestabile. Una via forzata in cui paradossi morali si trovano a coesistere, dove il ribaltamento dei valori e delle promesse viene schiacciato fino a disintegrarne i bordi. Parlandone si corre sempre il rischio di cadere nella trappola del “già visto, già detto” senza realmente approfondire i dilemmi alla base. È fin troppo semplice lanciare in faccia allo spettatore il dogma “moderno = cattivo” per poi far scorrere i titoli di coda. Red Dead Redemption danza magistralmente su questa dicotomia, specialmente nel secondo capitolo della saga. Il canone letterario denominato western revisionista prende la scena, trasportato nel medium videoludico come solo la software house americana sa fare: c’è il Butch Cassidy di George Roy, ci sono gli strascichi bellici di William Faulkner, c’è persino un pizzico del recente Django Unchained, ma c’è soprattutto Cavalli Selvaggi di Cormac McCarthy.
Un magistrale dipinto in cui fiumi di dialoghi tentano di descrivere quel singolo attimo prima che tutto cambi. Un fugace istante prima che l’evoluzione si abbatta dirompente sulla quotidianità, costretta dalla sua stessa natura a lasciare indietro qualcuno. Nelle inqualificabili ore passate tra New Hanover, Lemoyne e West Elizabeth ci scontriamo continuamente con lo stato dell’arte che ci circonda: fattorie abbandonate, insediamenti fantasma e una natura lentamente divorata dalle crescenti necessità industriali.
Un paesaggio a prima vista meraviglioso, macchiato da un inchiostro in eterna espansione, da cui sorge naturale trarre parallelismi con il protagonista. Arthur Morgan è la Frontiera: una figura costantemente a metà fra orgoglio e istinto, legami e indipendenza, costretta a mutare per inseguire la sopravvivenza, ma senza essere realmente in grado di invertire l’incedere degli eventi. Un arco evolutivo che nelle fasi finali del gioco assume vivide tinte espiatorie: Arthur non cambia più come pura reazione alle vicende, ma si trova costretto a scendere a patti con ciò che lo circonda, con il suo lascito e con le scelte passate.
La decadenza di ciò che c’era e non ci sarà più, sublimando il macroscopico in un singolo individuo stanco di lottare. Una metamorfosi che richiama i tormenti di un Gatsby moderno, incapace di fermare l'inarrestabile flusso del tempo e delle sue conseguenze. È un processo doloroso e liberatorio allo stesso tempo, che rimanda alle riflessioni di Sartre sulla libertà e sulla responsabilità individuale, o al destino tragico di Edipo nell'accettazione del suo fato. Arthur, come la frontiera, si piega alle leggi implacabili della natura umana e dell'evoluzione storica, un destino inevitabile che brama consapevolezza e redenzione. C’è la miglior tragicità personale, senza il pesante fardello della solennità scenica.
Ulteriori spunti sul tema possono essere ricavati dallo gameplay. Una formula costantemente sospesa tra l’organica libertà dell’open world e gli stringenti binari narrativi della main quest. Se in GTA V questo distacco si faceva notare meno grazie ad un oculato utilizzo del character switch, in Red Dead Redemption 2 viene purtroppo amplificato dalla natura solitaria del gameplay loop. Persino quelle poche missioni aperte che incontreremo nell’avventura risultano più delle concessioni formali che reali spinte verso le velleità sandbox dei primi capitoli 3D.
Un contrasto che, più o meno volontariamente, si incastona perfettamente nelle tematiche e nella trama del titolo; qualsiasi cosa accada, qualsiasi idea fuori dagli schemi possa avere il videogiocatore, lo svolgimento della storia non può deviare dal seminato e viene protetto ad ogni costo. Un dazio da pagare per poter raccontare un intreccio di tale caratura. Così come il gameplay sembra limitare le opzioni del giocatore, così anche Arthur si trova intrappolato nelle conseguenze delle sue azioni passate e nelle aspettative della sua banda. La libertà lasciata in mano a chi guarda dall’altra parte dello schermo è circoscritta al contorno delle vicende e fugace negli esiti: si possono cambiare gli addendi, ma non il risultato finale. Un ecosistema che rimane apertissimo nel mezzo, in tutti quei momenti che risulterebbero filler nella maggior parte degli altri open world, donando dignità all’ecosistema intorno al protagonista e potenziando la simbiosi tra Arthur e chi lo controlla.
C’è sempre uno strano silenzio nella Sierra, come in tutti quei posti apparentemente vuoti. Si resta sospesi, ad attendere qualcosa che sta per arrivare dall’altro lato della collina. Senza andarvi incontro, senza cercarlo, senza chiamarlo.