Six days in Fallujah
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La notizia é arrivata il 27 aprile, sotto forma di un freddo comunicato stampa della Konami, rilasciato al sito nipponico Asahi.com. Six Days in Fallujah non si farà. Il produttore giapponese si é tirato indietro, pare a seguito di violente di polemiche esplose in rete sull'ambientazione del titolo che, ora come ora, gli sviluppatori dell'Atomic Games disperano di riuscire a piazzare altrove. Grande, grandissimo peccato, ha commentato il nostro Davide Ottagono nell'annunciare la notizia qualche giorno fa. Siamo d'accordo. Six Days in Fallujah avrebbe meritato un destino migliore.
Il gioco, lo ricordiamo, avrebbe ricostruito alcune fasi della Seconda Battaglia di Fallujah, combattuta dai marines del 3 Battaglione nel novembre 2004, servendosi della consulenza di alcuni appartenenti al famoso Corpo militare americano per assicurare un adeguato livello di realismo. Dalle indiscrezioni filtrate prima della doccia gelata targata Konami, si sarebbe dovuto trattare non di un FPS classico ma di un survival horror bellico, che avrebbe visto una squadra di “leather necks” alle prese con la difficile avanzata casa per casa in un ambiente urbano disseminato di agguati, trappole e imboscate. Un gioco potenzialmente interessante e innovativo, dunque, sacrificato sull'altare del “politically correct” sul quale non é stata invece versata in passato una sola goccia del sangue (sic!) dei vari Manhunt, Condemned, Mafia e GTA. I soldati americani sono dunque peggio che criminali, serial-killer e mafiosi? Chi tenta di spacciare un simile assioma farebbe bene a riflettere davanti ad una camomilla, prima di salire sulla seggiola del suo Hyde Park Corner virtuale e lanciare fatwa farneticanti contro un videogioco bellico, di fatto simile a tanti altri.
Intendiamoci. La guerra, quella vera però e non quella combattuta per gioco su un monitor, é sempre una porcheria. Non trovo termini migliori per definire un'attività che mette l'uomo contro il suo simile, fino alla morte. Vale per tutti i conflitti, però, senza distinzioni di bandiera e colore. E tra combattere i propri simili in guerra e giocare su un monitor ad un videogioco bellico corre la stessa differenza che c'é tra uccidere la gente o godersi una buona storia gialla in TV, o sulle pagine di un romanzo. Che facciamo? Mettiamo all'indice l'Iliade perché parla di guerra? Impediamo ai nostri figli di giocare ai soldatini? Vietiamo gli abiti con colori mimetici?
Non c'é stato lo stesso pudore, in passato, nel finanziare giochi che ricostruivano eventi bellici assai più cruenti (sbarco ad Omaha Beach: 4.700 tra morti e feriti alleati solo nel primo giorno, senza considerare le perdite tedesche; Stalingrado, 800.000 morti per l'Asse e 1 milione 100 mila per i sovietici in sei mesi), e ci si fa quasi un vanto di produrre titoli che simulano le gesta di assassini seriali e criminali vari. Perché rifiutare 6DIF, allora? Se la giustificazione fosse stata che si tratta di fatti troppo recenti, avrebbe meritato la censura anche l'ottimo Blackhawk Down di NovaLogic, che ricostruiva lo scontro al mercato Bakhara di Mogadiscio del 3 ottobre 1993 (vedi l'omonimo film di Ridley Scott), costato 18 morti americani, 1 malese e 500 tra i ribelli somali.
Parlare della guerra in Iraq, però, non piace a chi oggi con il senno di poi sarebbe costretto a riconoscere l'efficacia di azioni come Phantom Fury a Fallujah (ripetute poi a Ramadi e Mosul) e della politica del “surge” contro le infiltrazioni di Al Quaeda (a Fallujah, ad opporsi agli americani e, lo ricordiamo, ai soldati del 36mo Battaglione dell'Esercito Iracheno, c'erano “volontari” ceceni, filippini, iraniani, siriani e perfino cittadini italiani, affiliati all'organizzazione terroristica di Bin Laden e detestati dai cittadini iracheni). “Sarebbe stato meglio se fossero venuti prima”. La frase é di Iyad Assam, 24 anni, abitante di Fallujah, raccolta da un reporter di Asia News all'indomani della cacciata di Al Quaeda dalla città. Dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, infatti, la città venne governata fino ad aprile 2004 da un Consiglio dei mujahdeen, guidato dallo sceicco Abdallah Janabi, comprendente i religiosi e i militanti radicali, che faceva rispettare i suoi decreti con le armi e il terrore. Gli abitanti di Fallujah si lamentarono per le conseguenze dell'azione militare americana, denunciando la morte di "molti innocenti nei bombardamenti". Sottolineando però che "avremmo voluto che gli americani non ci impiegassero 8 mesi per riconquistare la città".
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Una realtà che chi sulla rete ha straparlato di fosforo bianco e di vittime ha taciuto a bella posta. Gente che non saprebbe distinguere una granata illuminante da una lattina di Pepsi e che l'esperienza che più si avvicina al servizio militare l'ha vissuta su un 40 pollici, giocando a Call of Duty, si é sentita in dovere di dare lezioni di etica ad un team di onesti sviluppatori che cercavano di fare il loro mestiere, realizzando un gioco realistico, che ricostruiva asetticamente (non sapremo mai i dettagli, ahimé, ma dubitiamo che prevedesse violenze su cittadini inermi, fucilazioni di bambini, stupri di gruppo, ecc) un episodio di guerra reale. Se i soloni di qualche rivista concorrente si fossero presi la briga di consultare fonti neutrali, invece di copiare e incollare le veline della stampa anti-amerikana, avrebbero scoperto che i soldati USA, prima di assediare Fallujah, diedero settimane di tempo ai cittadini per evacuare, rinunciando all'effetto sorpresa dell'attacco per ridurre al massimo il rischio per i civili inermi.
Che il fosforo bianco tanto vituperato viene comunemente usato da tutti gli eserciti del mondo come cortina fumogena (impervia ai visori infrarossi, al contrario del fumo normale) e a scopi di segnalazione. E che non é affatto classificato come arma chimica dei registri internazionali e che comunque gli USA non hanno mai sottoscritto il Protocollo ONU che ne vieterebbe l'uso (ma solo nei centri urbani e con scopi palesemente offensivi), al pari di tante altre nazioni. Iran, Cuba, Cina, Venezuela in testa. O, infine, che buona parte delle vittime “civili” mostrate ai premurosi fotoreporter della stampa di parte dagli stessi terroristi, altro non erano che miliziani armati, spesso giovanissimi (e anche donne), reclutati a forza dalle milizie quaediste, pronte a servirsene come manovalanza per la loro jihad e come scudi umani. L'esercito iracheno, quello regolare, si batté a fianco degli americani, lo abbiamo detto. Se per civile s'intende chiunque non indossi un'uniforme, allora é bene che le cornacchie arcobaleno si facciano una passeggiata su qualche fronte di guerra asimmetrica, per accorgersi di come insorti e terroristi, di norma, non indossino giubbe rosse ed alamari d'argento.
Il peccato commesso dunque, caro Davide, stavolta é mortale. E pensare che gli alfieri del politically correct antiamericano di oggi sono proprio quelli che, di solito, sventolano la bandiera anti-censura, promuovendo la libertà d'espressione nei videogiochi e così via. Evidentemente, però, considerano più accettabile continuare a produrre giochi in cui si squarta il prossimo con la sega a motore, si rubano auto ed investono passanti sulle strisce o si lotta per diventare capi della mafia, piuttosto che rievocare un episodio della storia recente, dove l'unico scandalo sta nell'ignoranza e nella faziosità dei cronisti che all'epoca se ne occuparono, sparando a zero sulla violenza dei soldati alleati e tacendo invece sulle atrocità commesse dai terroristi quaedisti sulla popolazione irachena della città.
Come se i morti di qualsiasi etnia e fazione, poveretti, non meritino tutti la stessa pietà.
Finisce dunque così la breve carriera di 6DIF, non lasciando altra scelta, per il momento, a chi desidera ripercorrere le fasi del conflitto iracheno, che connettersi con i server di Kuma War Online, gioco freeware da anni disponibile in rete, senza che nessuno abbia mai invocato la scure della censura (nota bene!), che prevede, fra le altre, anche la ricostruzione della missione del sergente dei marines Jeremiah Workman a Fallujah, impegnato nel salvataggio di 3 commilitoni da un'imboscata di terroristi quaedisti.
Continuiamo così, diceva un famoso regista qualche anno fa, facciamoci del male...
Marco Modugno, giornalista pubblicista, é scrittore di romanzi d'azione ed ha svolto la professione di corrispondente free-lance per conto di riviste specializzate del settore forze armate e difesa
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Il gioco, lo ricordiamo, avrebbe ricostruito alcune fasi della Seconda Battaglia di Fallujah, combattuta dai marines del 3 Battaglione nel novembre 2004, servendosi della consulenza di alcuni appartenenti al famoso Corpo militare americano per assicurare un adeguato livello di realismo. Dalle indiscrezioni filtrate prima della doccia gelata targata Konami, si sarebbe dovuto trattare non di un FPS classico ma di un survival horror bellico, che avrebbe visto una squadra di “leather necks” alle prese con la difficile avanzata casa per casa in un ambiente urbano disseminato di agguati, trappole e imboscate. Un gioco potenzialmente interessante e innovativo, dunque, sacrificato sull'altare del “politically correct” sul quale non é stata invece versata in passato una sola goccia del sangue (sic!) dei vari Manhunt, Condemned, Mafia e GTA. I soldati americani sono dunque peggio che criminali, serial-killer e mafiosi? Chi tenta di spacciare un simile assioma farebbe bene a riflettere davanti ad una camomilla, prima di salire sulla seggiola del suo Hyde Park Corner virtuale e lanciare fatwa farneticanti contro un videogioco bellico, di fatto simile a tanti altri.
Intendiamoci. La guerra, quella vera però e non quella combattuta per gioco su un monitor, é sempre una porcheria. Non trovo termini migliori per definire un'attività che mette l'uomo contro il suo simile, fino alla morte. Vale per tutti i conflitti, però, senza distinzioni di bandiera e colore. E tra combattere i propri simili in guerra e giocare su un monitor ad un videogioco bellico corre la stessa differenza che c'é tra uccidere la gente o godersi una buona storia gialla in TV, o sulle pagine di un romanzo. Che facciamo? Mettiamo all'indice l'Iliade perché parla di guerra? Impediamo ai nostri figli di giocare ai soldatini? Vietiamo gli abiti con colori mimetici?
Non c'é stato lo stesso pudore, in passato, nel finanziare giochi che ricostruivano eventi bellici assai più cruenti (sbarco ad Omaha Beach: 4.700 tra morti e feriti alleati solo nel primo giorno, senza considerare le perdite tedesche; Stalingrado, 800.000 morti per l'Asse e 1 milione 100 mila per i sovietici in sei mesi), e ci si fa quasi un vanto di produrre titoli che simulano le gesta di assassini seriali e criminali vari. Perché rifiutare 6DIF, allora? Se la giustificazione fosse stata che si tratta di fatti troppo recenti, avrebbe meritato la censura anche l'ottimo Blackhawk Down di NovaLogic, che ricostruiva lo scontro al mercato Bakhara di Mogadiscio del 3 ottobre 1993 (vedi l'omonimo film di Ridley Scott), costato 18 morti americani, 1 malese e 500 tra i ribelli somali.
Parlare della guerra in Iraq, però, non piace a chi oggi con il senno di poi sarebbe costretto a riconoscere l'efficacia di azioni come Phantom Fury a Fallujah (ripetute poi a Ramadi e Mosul) e della politica del “surge” contro le infiltrazioni di Al Quaeda (a Fallujah, ad opporsi agli americani e, lo ricordiamo, ai soldati del 36mo Battaglione dell'Esercito Iracheno, c'erano “volontari” ceceni, filippini, iraniani, siriani e perfino cittadini italiani, affiliati all'organizzazione terroristica di Bin Laden e detestati dai cittadini iracheni). “Sarebbe stato meglio se fossero venuti prima”. La frase é di Iyad Assam, 24 anni, abitante di Fallujah, raccolta da un reporter di Asia News all'indomani della cacciata di Al Quaeda dalla città. Dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, infatti, la città venne governata fino ad aprile 2004 da un Consiglio dei mujahdeen, guidato dallo sceicco Abdallah Janabi, comprendente i religiosi e i militanti radicali, che faceva rispettare i suoi decreti con le armi e il terrore. Gli abitanti di Fallujah si lamentarono per le conseguenze dell'azione militare americana, denunciando la morte di "molti innocenti nei bombardamenti". Sottolineando però che "avremmo voluto che gli americani non ci impiegassero 8 mesi per riconquistare la città".
Una realtà che chi sulla rete ha straparlato di fosforo bianco e di vittime ha taciuto a bella posta. Gente che non saprebbe distinguere una granata illuminante da una lattina di Pepsi e che l'esperienza che più si avvicina al servizio militare l'ha vissuta su un 40 pollici, giocando a Call of Duty, si é sentita in dovere di dare lezioni di etica ad un team di onesti sviluppatori che cercavano di fare il loro mestiere, realizzando un gioco realistico, che ricostruiva asetticamente (non sapremo mai i dettagli, ahimé, ma dubitiamo che prevedesse violenze su cittadini inermi, fucilazioni di bambini, stupri di gruppo, ecc) un episodio di guerra reale. Se i soloni di qualche rivista concorrente si fossero presi la briga di consultare fonti neutrali, invece di copiare e incollare le veline della stampa anti-amerikana, avrebbero scoperto che i soldati USA, prima di assediare Fallujah, diedero settimane di tempo ai cittadini per evacuare, rinunciando all'effetto sorpresa dell'attacco per ridurre al massimo il rischio per i civili inermi.
Che il fosforo bianco tanto vituperato viene comunemente usato da tutti gli eserciti del mondo come cortina fumogena (impervia ai visori infrarossi, al contrario del fumo normale) e a scopi di segnalazione. E che non é affatto classificato come arma chimica dei registri internazionali e che comunque gli USA non hanno mai sottoscritto il Protocollo ONU che ne vieterebbe l'uso (ma solo nei centri urbani e con scopi palesemente offensivi), al pari di tante altre nazioni. Iran, Cuba, Cina, Venezuela in testa. O, infine, che buona parte delle vittime “civili” mostrate ai premurosi fotoreporter della stampa di parte dagli stessi terroristi, altro non erano che miliziani armati, spesso giovanissimi (e anche donne), reclutati a forza dalle milizie quaediste, pronte a servirsene come manovalanza per la loro jihad e come scudi umani. L'esercito iracheno, quello regolare, si batté a fianco degli americani, lo abbiamo detto. Se per civile s'intende chiunque non indossi un'uniforme, allora é bene che le cornacchie arcobaleno si facciano una passeggiata su qualche fronte di guerra asimmetrica, per accorgersi di come insorti e terroristi, di norma, non indossino giubbe rosse ed alamari d'argento.
Il peccato commesso dunque, caro Davide, stavolta é mortale. E pensare che gli alfieri del politically correct antiamericano di oggi sono proprio quelli che, di solito, sventolano la bandiera anti-censura, promuovendo la libertà d'espressione nei videogiochi e così via. Evidentemente, però, considerano più accettabile continuare a produrre giochi in cui si squarta il prossimo con la sega a motore, si rubano auto ed investono passanti sulle strisce o si lotta per diventare capi della mafia, piuttosto che rievocare un episodio della storia recente, dove l'unico scandalo sta nell'ignoranza e nella faziosità dei cronisti che all'epoca se ne occuparono, sparando a zero sulla violenza dei soldati alleati e tacendo invece sulle atrocità commesse dai terroristi quaedisti sulla popolazione irachena della città.
Come se i morti di qualsiasi etnia e fazione, poveretti, non meritino tutti la stessa pietà.
Finisce dunque così la breve carriera di 6DIF, non lasciando altra scelta, per il momento, a chi desidera ripercorrere le fasi del conflitto iracheno, che connettersi con i server di Kuma War Online, gioco freeware da anni disponibile in rete, senza che nessuno abbia mai invocato la scure della censura (nota bene!), che prevede, fra le altre, anche la ricostruzione della missione del sergente dei marines Jeremiah Workman a Fallujah, impegnato nel salvataggio di 3 commilitoni da un'imboscata di terroristi quaedisti.
Continuiamo così, diceva un famoso regista qualche anno fa, facciamoci del male...
Marco Modugno, giornalista pubblicista, é scrittore di romanzi d'azione ed ha svolto la professione di corrispondente free-lance per conto di riviste specializzate del settore forze armate e difesa
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