Brennero, la fiction RAI con "una patina fredda ma dal cuore caldo", raccontata dal suo cast
Matteo Martari, Elena Radonicich e i realizzatori di Brennero raccontano le riprese in loco e la vicenda storica alla base della serie.
Un serial killer torna a uccidere dopo anni di silenzio a Bolzano, in un territorio italiano di confine in cui spesso l'italianità è vista con sguardo ostile. La nuova serie targata Rai s'intitola Brennero e, sin dal titolo, reclama come missione non solo quella di avvincere il pubblico con una caccia a un assassino inafferrabile e astuto, ma anche quella di raccontare un luogo fatto di differenze e asperità, di convivenza che può farsi aspra.
In quattro serate e otto episodi - il primo in onda stasera 16 ottobre - Brennero porterà il pubblico italiano a scoprire l'identità dell'assassino ma anche una lunghissima stagione di incomprensioni, nata nel dopo guerra, fiorita in attentati talvolta dimenticati dal resto della penisola, proseguita con un rancore silenzioso. Il territorio ideale per far nascere un serial killer desideroso di vendetta.
Ne abbiamo parlato con il cast della serie:
- Giuseppe Bonito - regista
- Carlo Mazzotta - sceneggiatore
- Matteo Martari - attore
- Elena Radonicich - attrice
Come descrivereste la regia di Brennero, il suo feel? Alcuni si aspetteranno un prodotto “freddo”, dato il carattere teutonico dei luoghi raccontati.
Matteo Martari - È una serie con una patina fredda ma dal cuore caldo, che sorprende, così come il suo protagonista. Il mio personaggio, Paolo, è un agente che ha avuto un incidente tre anni prima l’inizio della storia, dove ha perso la moglie e parte di una gamba.
Giuseppe Bonito - A proposito dell’amputazione. Non è stato così difficile girare perché gli effetti visivi al giorno d’oggi aiutano tantissimo. Abbiamo girato con una controfigura che aveva un amputazione simile per alcuni primi piani, il resto l’ha fatto Matteo.
Credo che siano stati Elena e Matteo ad affrontare la vera complessità. Sai, hanno dovuto scegliere se morire di ipotermia a gennaio o disidratazione a giugno, per via delle lunghe riprese che sono finite nel pieno di un’estate caldissima a Roma. Nell’ultimo episodio, che ho girato io, gli attori entrano in questura, in cui in teoria faceva freddissimo, e cercano in tutti i modi di togliersi i vestiti perché eravamo a Roma e faceva un caldo afoso da Jakarta.
Come avete approcciato la produzione di una serie così intrecciata a un territorio di cui non siete nativi?
Giuseppe Bonito - Siamo stati molto cauti all’inizio nel scrivere questa realtà duplice, italiana e tirolese. Abbiamo preso davvero fiducia nel racconto quando siamo arrivati in loco e abbiamo visto che in effetti ancor oggi ci sono due comunità, due lingue, due culture a cui è stato chiesto di vivere insieme. Ci è stato raccontato, a volte sussurrato, quanto possa essere difficile farlo da chi ci ospitava. Abbiamo cercato di restituire questa confidenza, sempre in maniera rispettosa, attenta, il più possibile autentica.
Avete quindi toccato con mano i pregiudizi di cui si parla nella serie? Quelli verso la popolazione italian e viceversa?
Giuseppe Bonito - Quando siamo arrivati a Bolzano devo dire che abbiamo finito per confrontarci più che altro i nostri pregiudizi, non con quelli di chi abita lì. Sono stato piacevolmente sorpreso dall’incontro con gli abitanti del luogo. Non solo dei cittadini, ma anche e soprattutto di chi vive un po’ fuori Bolzano, dove l’italianità è meno presente. È un ulteriore distinzione di cui tenere conto.
Il tema della memoria storica è centrale nella serie e si riflette anche nella famiglia di Eva
Davide Marengo - La serie si apre con una scena girata da me in cui all’ex procuratore capo viene diagnosticato un principio di Alzaimer. La memoria è una tematica forte, perché questa è un’indagine del presente ma anche del passato.
Questo confrontarsi con il ricordo ambiguo del passato tocca soprattutto ad Eva.
Elena Radonicich- Questo personaggio credo sia un po’ sconosciuto a sé stesso. Eva come donna e investigatrice non ha ancora capito il suo pieno potenziale, troppo impegnata com’è a compiacere le aspettative del padre, che è stato ed è un uomo importante, ingombrante, impegnativo. Eva in questa storia ha una grande occasione di autodeterminarsi e lo fa grazie al Paolo Costa di Matteo, che la comprendere al di là delle apparenze. Lei scoprirà che ha un fuoco dentro, sotto la sua gelida perfezione, che non sapeva di avere. Per usarlo deve togliersi delle zavorre che ha ancora addosso e non se ne rende conto. È una persona un po’ rigida che impara a lasciarsi andare.
Possiamo aspettarci scintille tra i due, anche se lei è sposata? O sarà solo un’intesa professionale?
Matteo Martari - C’è un tirante sentimentale tra i due protagonisti, diciamo pure che i due “avranno modo di scoprirsi”. Il mio personaggio, come Eva, ha un passato recente forte che gli pesa addosso, per cui non sarà facile nemmeno per lui lasciarsi andare.
Brennero porterà molti italiani a scoprire, forse per la prima volta, le vicende drammatiche degli attentati del Comitato di liberazione del Sud Tirol. Come avete approcciato la verità storica a cui la serie allude di continuo?
Carlo Mazzotta - Abbiamo fatto ricerca personale, poi siamo andati sul territorio e ci siamo rivolti a consulenti locali tentando il più possibile di rendere questo passato doloroso in maniera autentica. Il nostro obiettivo sugli attentati non vuole essere di denuncia ma di riflessione sul confine e sulle relazioni tra le due culture.
Ci intrigava farlo da un punto di vista diverso: una terra che in teoria è un paradiso ma he ha una storia di sofferenza, annessione, guerra, conflitti. Anche perché Brennero arriva in un periodo storico in cui questo tema è urgente. Quello che vogliamo passare è che niente è come appare e si arriva alla verità delle cose solo con la conoscenza.
La serie affronta il razzismo su entrambi i fronti, italiano e sud tirolese. Non potrebbe essere più attuale di così.
Elena Radonicich- ll clima attuale è tragico, la cultura preponderante purtroppo ha delle derive razziste. Brennero ci ricorda che cambiano punto di vista, mettendosi nei panni degli altri, le cose appaiono diverse. Questo ribaltamento fornito dalla serie permette l’empatia, dando il via alla comunicazione che permette di comprendersi anche nelle diversità.
Matteo - Sono assolutamente d’accordo con Elena, trovo assurdo che ci ancora il razzismo, che si lavori per confini e diversità. L’idea del confine mi preoccupa tantissimo e questa serie, in questo senso, mi ha anche sconvolto. Per confini intendo quelli fisici, le barriere architettoniche e anche, ovviamente ,quello mentale del razzismo