Ghosts of Beirut: la storia vera, gli attacchi terroristici, i protagonisti reali nella miniserie Paramount+

Lo chiamavano Fantasma, perché per decenni nessuno, agenzie di intelligence incluse, era stato in grado di rintracciarlo. Ecco la storia vera dell’inventore degli attacchi suicidi nella miniserie Ghosts of Beirut.

di Chiara Poli

È avvincente. È spaventosa. È carica di tensione. È complessa. Ed è una storia vera.

Ghosts of Beirut non è come un true crime, realizzato in forma di documentario con interviste intervallate da una ricostruzione. Qui succede esattamente il contrario: è la realtà a inserirsi nella ricostruzione, la più accurata possibile in base alla documentazione disponibile, della storia di Imad Mughniyeh conosciuto come Radwan e della nascita della cosiddetta “guerra santa”.

La miniserie Showtime in 4 episodi, disponibile in Italia su Paramount+, racconta un pezzo importante, scomodo, sconvolgente di storia. Un pezzo di storia che tutti dovrebbero conoscere, per capire un mondo che orami non esiste più, ma che ha dato origine a parte di ciò che l’ha distrutto. E che ancora oggi resiste e continua a distruggere.

La nascita del nuovo terrorismo


Dall’Iraq del 2007 al Libano del 1982, e viceversa, passando per Siria e Israele. Un viaggio nel tempo attraverso un’attenta ricostruzione storica - con i veri protagonisti (ex agenti CIA e giornalisti) dell’epoca che introducono i nuovi personaggi mano a mano, e i veri notiziari con le immagini di repertorio che riportano le notizie degli attentati - ci porta alla scoperta dell’attività di Radwan. L’uomo che convince il primo “martire” che il suicidio non è peccato: se compiuto in nome di una guerra santa, si va dritti in Paradiso. “Molti seguiranno il tuo esempio”, gli dice Radwan. E fu così. A lui si deve il primo attentatore suicida islamico, a cui ne sarebbero seguiti molti altri. Proprio come Radwan aveva predetto.

La sua propaganda, con le parole dette al ragazzo senza futuro e senza cibo che ha convinto a immolarsi prima, e con le sue foto da eroe diffuse in tutto il Paese poi, cambiò radicalmente lo scenario del terrorismo internazionale. Mentre reclutava martiri, Radwan - interpretato nelle diverse fasi della sua vita da due attori diversi, Amir Khoury e Hisham Suliman - continuava nella sua opera, intrecciando rapporti internazionali e portando avanti missioni sempre più ambiziose.

“Fanatici motivati dall’Imam Khomeini”, li definiscono alla CIA. Ovvero gli uomini - perché alle donne non era permesso prendere parte alle decisioni - che fecero in modo di convincere tutti che sacrificandosi sarebbero finiti dritti nel Paradiso dell’altra vita, quella immortale, l’unica che contasse davvero. Dimostrando di non avere paura di morire, avrebbero cambiato tutto. Radwan l’aveva previsto. E così fu.

Il concetto di Jihad (il nome del fratello minore di Radwan e di uno dei suoi futuri figli), “guerra santa” nasce allora, dalla sua mente. Mentre il Mossad attribuisce a una fuga di gas l’attentato compiuto in una delle sue roccaforti di Beirut, per cercare di evitare che l’attentatore diventasse un eroe, Radwan prosegue nel suo lavoro, sempre più complesso e articolato.

Era finanziato dagli iraniani, vantava appoggi internazionali, riuscì ad arrivare dove nessuno era mai riuscito prima. Diventò l’uomo più ricercato dalla CIA, restando un fantasma imprendibile per decenni mentre organizzava attentati, dirottava aerei, organizzava eserciti. Aveva i soldi dell’Iran e la protezione della Siria.

Il padre del fumo, Il fantasma, obiettivo del MOSSAD, ossessione della CIA


Niente nomi, niente foto. Imad Mughineyh, un nome che non risultava da nessuna parte. Tanti soprannomi e uno pseudonimo: Radwan. Lo chiamavano “il fantasma”, perché faceva in modo di non lasciare nessuna traccia e di non farsi identificare dal nemico. Israele, gli Stati Uniti che cecavano di porre fine alla guerra facendo da mediatori, ma anche intervenendo con una massiccia presenza di marines, nel tentativo - così recitavano le carte - di “dare stabilità” al suo Paese, il Libano.

Radwan era una ex guardia del corpo di Arafat. Quando fuggì, Arafat gli lasciò le chiavi dell’armeria, regalandogli di fatto un’enorme quantità di tutte le armi disponibili all’epoca.

Era sposato, ma la moglie non concepiva il suicidio, vietato dalla sua religione, come strumento d’attacco, e disapprovava ciò che Radwan stava facendo. Fu lui, Radwan, a reclutare e addestrare alcuni dei più feroci terroristi dell’epoca e degli anni a venire.

Il 18 aprile del 1983 fece attaccare l’ambasciata americana a Beirut. Le auto-bomba erano un fenomeno fino ad allora sconosciuto, che nessuno poteva fermare perché nessuno sapeva della loro esistenza.

Il Presidente Reagan attaccò duramente il gesto, che causò vittime americane e libanesi, e dopo quel momento la situazione cambiò. L’uomo che veniva considerato “il pacificatore”, e l’unico in grado di portare alla pace fra Libano e Israele, Robert Ames (Dermot Mulroney, Il matrimonio del mio migliore amico), morì nell’attentato all’ambasciata. La gente per la strada gridava “Morte a Israele” e “Morte all’America”. 

Un nuovo scenario si affacciava sulla scena mondiale. Lo stesso scenario destinato a dare origine ai più sanguinari attacchi terroristici. 

Una storia internazionale, tante lingue, un unico grande disegno


Ghosts of Beirut rispetta la lingua parlata dai vari personaggi, perciò una larga parte della miniserie è in arabo, un’altra parte - quella degli americani - tradotta in italiano, una parte in ebraico e infine ci sono le testimonianze e i telegiornali reali dell’epoca in inglese. Il tutto naturalmente con i sottotitoli in italiano. 

Dopo la morte di Ames, un nuovo elemento si unisce alla squadra della CIA in territorio libanese: si tratta di Chet Riley (Ravi Gavino, A Star is Born), esperto agente operativo che parla arabo e si accompagna al nuovo supervisore, l’ex berretto verde William Buckley, (Garrett Dillahunt, Aiutami Hope!, Fear The Walking Dead), inviato sul campo per scoprire chi c’era dietro l’attentato all’ambasciata. Ma le autobombe, sei in una manciata di minuti, cominciano ad attaccare la sede dei marines e i militari francesi a Beirut. A quel punto, Reagan ordinò il ritiro in più fasi di tutte le forze americane presenti in Libano. Ma la squadra della CIA di Buckley scelse di restare.

Nel frattempo, la “guerra santa” di cui tutto il mondo inizia a parlare, attacca in Kuwait. Ma il cognato di Radwan, Mustafa, viene catturato. Per evitare che venga torturato a morte, Radwan inizia a far rapire tutti i cittadini americani - imprenditori, insegnanti e gente comune - su cui riesce a mettere le mani per negoziare la liberazione di Mustafa. L’America viene considerata un nemico mortale, ma Radwan ricorre al potere della CIA per negoziare sugli ostaggi.

Quando a essere rapito è un pezzo grosso della CIA, la situazione precipita. Arriva il primo video con le torture all’ostaggio. A Washington la reazione è devastante, ma non sanno come muoversi. Prendono tempo. Chet decide di agire da solo, convinto di sapere dove si trovi l’ostaggio. Il suo collega Steve (Robert Kazinksky, Pacific Rim) cerca di dissuaderlo ma Chet non lo ascolta. È comunque tutto inutile. Solo Chet è disposto a rischiare per salvare l’ostaggio. Ai piani alti scelgono altre strategie. E qualcuno paga con la vita. 

Lena: l’eterno sospetto


L’agente della CIA Lena Aysaran, libanese sciita di origine e in America da quando aveva 5 anni, ha un’ossessione per Radwan. Come tutta la CIA. Ma lei è libanese, i suoi genitori hanno vissuto la guerra, sono dovuti fuggire dalla loro casa e dalla loro patria: Lena (Dina Shihabi, Jack Ryan) ha una ragione personale per catturarlo. Lo cerca da tutta la vita, ha studiato i suoi metodi così a fondo che li riconosce anche quando non lascia tracce.

Ma quando c’è di mezzo uno come Radwan, non importa se sei un’agente della CIA: ti guardano comunque tutti con sospetto. Per le tue origini. E il Mossad, la cui collaborazione è fondamentale per capire dove si trovi il Fantasma, non si fida di lei. Il fatto che Lena segua i propri metodi, rifiutando di rispettare le regole israeliane, non aiuta. Ma certamente dimostra la sua preparazione. Parla libanese e conosce benissimo la città, pur avendo sempre vissuto negli USA. Ha coraggio, reazioni pronte, storie verificabili. Insomma: è un ottimo elemento, ma l’eterno sospetto che separa ogni nazione, anche quando collabora strettamente con altre, resta valido.

Ghosts of Beirut ci racconta di una parte di mondo che si allea con Radwan e lo finanzia, e di un’altra parte che gli dà la caccia. In entrambi i casi, ciascun Paese fa i propri interessi e cerca di accaparrarsi primati, che siano stragi o catture, informazioni oppure ostaggi. La guerra non è solo quella che si combatte con i mezzi pesanti e le bombe. La guerra ha origine nel sospetto, negli interessi personali di chi partecipa a una squadra internazionale, nei dubbi e nello spionaggio. 

Nelle relazioni extraconiugali - quando coinvolgono un terrorista, all’insaputa o meno dell’altro - bisogna stare attenti a cosa si racconta al coniuge e all’amante. Bisogna far sì che non s’incontrino mai. Ma col tempo, a forza di costruire castelli di bugie, si diventa vittime di quel meccanismo. E ci si sente talmente a proprio agio a mentire, a cambiare identità e Paese, a scappare continuamente, che alla fine si abbassa la guardia. Magari, proprio per amore.

Come succede a Radwan nel momento in cui Lena è pronta a catturare la sua immagine. Dopo decenni, l’unica foto di Radwan ragazzino viene sostituita da un’immagine attuale, reale, sicura. Ora Imad Mughniyeh ha un volto. E la storia è destinata a cambiare. Di nuovo. Grazie a chi, da tutta una vita, viene sospettato di fare il doppio gioco. Ma anche a chi rinuncia alla propria vita per il lavoro.

L’operazione Fantasma


Teddy (Iddo Goldberg, Peaky Blinders), l’agente del Mossad che da vent’anni dà la caccia a Radwan, collabora con Lena.

Un’operazione congiunta della CIA col Mossad si prepara a eliminare il capo del primo Hezbollah della storia, l’esercito paramilitare fondato a Beirut nel 1982.

Ma la situazione è complicata: forse conscio di correre dei rischi, o forse solo per opportunità, Radwan gira accompagnandosi a un generale iraniano. E colpire un generale iraniano significherebbe scatenare una guerra contro il Paese che sembra pronto a fornire a Radwan la peggiore arma mai costruita dall’uomo. 

L’operazione che portò all’eliminazione di Radwan non è mai stata ufficiale: gli USA non hanno mai ammesso di avervi preso parte, così come Israele - che ha anzi negato la sua partecipazione. Allo stesso modo, non si conoscono i nomi degli operativi sul campo, che diedero materialmente vita all’attentato usando le stesse modalità - perfezionate per non fare vittime o danni collaterali - ideate da Radwan.

Nella ricostruzione sono presenti Lena e Teddy, rappresentanti delle due agenzie d’intelligence che - con ogni probabilità - misero insieme l’operazione.

Ma come andarono le cose nella realtà, rispetto a quanto raccontato da Ghosts of Beirut?

La storia vera dietro a Ghosts of Beirut


Imad Fayez Mughniyeh, nato in Libano nel 1962, è stato il fondatore della Jihad e del primo Hezbollah, la milizia paramilitare con obiettivi e missioni legati alla Jihad. 

Una delle menti operative più intelligenti, scaltre, innovative di sempre: così lo definiscono gli ex operativi della CIA che gli hanno dato la caccia per anni.

Non usava mai la stessa auto, cambiandola quotidianamente. Non prendeva mai appuntamenti al telefono, mai. Si occupava personalmente delle questioni più delicate, ma non lasciava mai alcuna traccia.

I soprannomi di Fantasma, e Padre del Fumo, insieme allo pseudonimo con cui si presentava, Radwan, sono le uniche certezze che chi gli dava la caccia aveva sulla sua esistenza. Nient’altro. Parlava arabo, inglese e francese. E probabilmente anche altre lingue sconosciute all’intelligence.

L’ex agente della CIA Robert Baer racconta che “entrava da una porta e usciva da un’altra”. Era imprevedibile, si serviva esclusivamente di persone di cui si fidava: non si limitava a reclutare soldati per la sua causa, li formava. Li trasformava in persone determinate, pronte a tutto, ciecamente leali a lui e alla sua causa.

Il generale iraniano Qasem Soleimani, persona reale che compare anche nella miniserie Ghosts of Beirut, lo definì “La leggenda del nostro tempo”.

Fu responsabile di molti attacchi terroristici, inventò gli attacchi suicidi con le autobombe, costruì un esercito di volontari pronti a morire per un suo ordine. Era convincente, carismatico, e al tempo stesso capace di diventare invisibile: abilità più uniche che rare nel campo della criminalità internazionale.

Nessun altro, mai, lo eguagliò. Mughniyeh attaccò la sede dei marines e l’ambasciata americana a Beirut il 18 aprile 1983, che uccise 63 persone fra cui il capo della Divisione della CIA in Libano, Robert Ames (il personaggio di Dermot Mulroney nella miniserie). Colpì anche i militari francesi in Libano nel 1983. Fu un suo ordine l’omicidio di Malcolm H. Kerr nel 1984, rettore del’Università Americana di Beirut, così come il dirottamento del volo TWA 847 il 14 giugno del 1985, con la tortura e l’uccisione di Robert Stethem. Fu la mente dei numerosi rapimenti ai danni di americani nella Beirut degli anni ’80, incluso quello di William Francis Buckley (Dillahunt nella serie) il capo della CIA a Beirut. Anche Buckley fu torturato a morte da Mughniyeh, che uccise personalmente anche i quattro diplomatici dell’ambasciata dell’Unione Sovietica a Beirut rapiti e assassinati nel settembre 1985.

Anche l’attacco terroristico all’ambasciata israeliana di Buenos Aires nel 1992 fu ideato da Mughniyeh, così come quello all’Associazione Israeliana di Buenos Aires del 1994, che uccise 85 persone. E molti altri omicidi e attacchi sono stati attribuiti a Mughniyeh.

La sua attività terroristica, destinata a rivoluzionare la scena internazionale con metodi ed eserciti nuovi e con la nascita della Jihad, nacque durante la guerra civile libanese e la guerra contro Israele, nata principalmente dagli attacchi palestinesi ai territori israeliani che partivano dal Sud del Libano fin dal 1968.

Come sempre, però, le ragioni della guerra erano molteplici, così come gli interessi. L’abbiamo imparato nel corso della storia e riassumere in questa sede la complessità della situazione sarebbe lungo e laborioso. 

Una certezza, però, l’abbiamo: le motivazioni alla base delle azioni di Mughniyeh fin dal 1982 in Ghots of Beirut vengono liquidate velocemente, senza approfondire la situazione geo-politica del Paese - il Libano - all’epoca e la situazione che portò il Fantasma a creare un esercito e a dare il via alla sua guerra santa.

Ghosts of Beirut ricostruisce attentamente le azioni di Mughniyeh, ma tralascia un’importante spiegazione politica e internazionale, complessa e determinante nella sua vita. 

Allo stesso modo, mette in scena gli eventi del 12 febbraio 2008, che portarono all’assassinio di Mughniyeh, allora quarantacinquenne, sulla base di pura invenzione per personaggi e situazioni. Come sappiamo, nessuno dei presunti partecipanti all’attentato ha mai dato conferme. Ci furono inoltre numerose speculazioni sul coinvolgimento dell’intelligence siriana - visto che l’attentato avvenne a Damasco - e fra i diplomatici tedeschi si diceva addirittura che fosse stato un Ministro siriano in persona a ordinare l’omicidio di Mughniyeh.