The Following
di
Marco Modugno
I portatori di pacemaker e i deboli di cuore si fermino qui. Ci stiamo per avventurare infatti nel mondo di The Following, fiction televisiva americana di enorme successo giunta proprio in questi giorni all'esordio della seconda serie sulle pay-tv italiane, mentre fra pochi giorni sarà finalmente disponibile il cofanetto, in versione DVD o BluRay, con tutti gli episodi della prima e la solita mezza tonnellata di extra, per la gioia dei suoi “followers” (il gioco di parole, dato il contesto, ci sta tutto). Il pericolo di fare spoiler su trama e personaggi, dato che ormai The Following ha fatto storia, con un "pilota" visto da più di venti milioni di spettatori, considerando solo l'audience americana, non é incombente, lasciandoci liberi di divagare liberamente, nel tentativo di comprendere meglio almeno una parte del segreto del successo di quella che, ad un occhio poco attento, potrebbe sembrare come l'ennesima serie americana sui serial killer.
Produttore esecutivo di razza, Kevin Williamson riesce benissimo nel suo scopo di attirare gli spettatori del pilota in una vera e propria imboscata narrativa. Si parte con un'infornata di stereotipi, di cui accenno nel box di commento e che quindi non torno a elencare, e lo show si snoda vivace ma senza particolari guizzi. Immaginare un killer che riesca ad affascinare le sue vittime (e non solo, ma questo lo scopriremo dopo) con interminabili lezioni su scrittori come Thoreau, Emerson e Edgar Allan Poe é poco credibile quanto scontato, nell'immaginario dei fan del thriller statunitense. Chi ha letto davvero qualcosa del padre del trascendentalismo americano (Emerson, che ha scritto saggi di una pesantezza devastante) e del suo contemporaneo e amico Thoreau, ispiratore della disobbedienza civile non violenta, nonché di Poe stesso che, ancorché riconosciuto e stimato padre del gotico, resta una penna spesso difficile da digerire senza un accompagnamento di Alka Seltzer (e guardare in seconda serata qualche vecchio film di Roger Corman con l'indimenticato Vincent Price non aiuta a capire la portata di quel che dico), sa perfettamente che oggi giorno é molto più facile irretire giovani allieve con una lettura pubblica dei romanzi della Kinsella, piuttosto che far leva su polverosi scrittori ottocenteschi. Stessa cosa si può dire per la figura del protagonista, malato, alcolizzato, sofferente, con un passato oscuro tutto da svelare e capire. Cliché, appunto, già visti e rivisti, assieme a tanti altri.
Poi però, verso il finale della puntata, proprio mentre, immaginiamo, i responsabili della Fox americana si apprestavano ad alzarsi dalle loro poltrone, consultando già l'agenda sul cellulare alla ricerca dell'appuntamento successivo, lo show ingrana bruscamente la seconda. E poi la terza, la quarta e la quinta, in un crescendo che fa girare la testa e immaginare una sessione di curve strette in drifting stile Fast & Furious (in senso narrativo, ovviamente). Da lì in avanti, per quindici puntate che qualche volta si fa fatica a guardare, dato il contenuto di violenza e l'intensità della tensione create, ma dalle quali allo stesso tempo non ci si riesce a staccare nemmeno volendo, si percorre assieme all'ex-agente Ryan Hardy, magistralmente interpretato da un Kevin Bacon che ha percorso parecchie miglia di carriera dai tempi di Footloose, una discesa agli inferi vertiginosa che prosegue nella seconda serie (quattro puntate già trasmesse in USA e una sola in Italia, mentre sto scrivendo), senza mai segnare una battuta d'arresto.
Non mancano, di quando in quando, imperfezioni della sceneggiatura, incongruenze nel comportamento dei protagonisti, episodi al limite dell'illogico. Si tratta però di peccati veniali che fanno sentire solo per pochi istanti un assottigliamento dello spessore qualitativo generale, pronto a ritornare al suo apice alla successiva, imminente, svolta della storia. L'idea dirompente di una mente criminale geniale che riesce a irretire e coinvolgere in un piano diabolico di amplissimo respiro una rete di decine di seguaci in giro per l'America, fondata sulle paure che tutti noi nutriamo nei confronti della società dell'informazione e comunicazione globale, in grado di mettere a disposizione di chiunque platee e pulpiti virtuali senza limiti né censure, inattaccabili e incontrollabili, riesce a catturare e sconvolgere allo stesso tempo anche chi ha ormai lo stomaco inspessito da decenni di autopsie, referti anatomopatologici, analisi delle macchie ematiche e ispezioni sulle scene del crimine televisive.
-Quello che sono diventato, lo devo a te - dice Roderick a Joe Carroll, quando finalmente i due riescono a incontrarsi faccia a faccia. Quello che funziona, in The Following, é proprio la scoperta del piano, l'inserimento nella trama principale di “followers” sempre diversi, ma accomunati dalla medesima sociopatia omicida e dalla stessa fragilità di carattere, miscela micidiale che li ha consegnati indifesi ma allo stesso tempo folla invisibile e tentacolare di pericolosi omicidi seriali, alla volontà e alla capacità d'influenzare di Carroll.
-Non sarete voi a trovare noi - minaccia uno dei killer rivolto a Ryan Hardy- Saremo noi a trovare voi. Noi siamo i vostri padri, le vostre madri, i vostri fratelli e sorelle, i vostri amici... -. Lo scenario immaginato é agghiacciante. Non un solo omicida, geniale quanto si vuole ma pur sempre isolato, braccato dalla polizia, preda fiera ma predestinata ad essere battuta, alla fine. Ma una vera e propria galassia di assassini, uno diverso dall'altro, perfettamente mescolati con la società civile e per questo micidiali. Pronti a dare la vita, oltre tutto, per il loro leader, al punto che abbondano, nello snodarsi della trama, seguaci che scelgono il suicidio piuttosto che venire meno all'impegno verso Joe. E in grado di garantire, quando il piano sembra finalmente destinato a fallire e il capo pare cadere nelle mani dei suoi inseguitori, la continuità della trama, in una sequenza di colpi di scena che, facendo parte del menu ricchissimo presentato dalla seconda serie appena iniziata, eviterò di svelare anche solo in parte.
Protagonista assoluta, nell'architettura del progetto criminoso di Carroll, intepretato da un James Purefoy decisamente più a suo agio nei panni dell'untuoso, languido, perfido ex-professore di letteratura massacratore di studentesse che in quelli grifagni di Solomon Kane o in quelli marziali di Marco Antonio della bellissima serie Roma della HBO, é la rete. Senza Internet, Joe non sarebbe riuscito a instituire la sua rete criminale e a ordire la complessissima ragnatela del suo piano.
Una delle sfide del mondo della comunicazione globale, dunque, pare essere proprio quella della prevenzione nei confronti del pericolo della nascita di simili sette omicide, impensabili nel mondo passato quando le informazioni viaggiavano prevalentemente attraverso la parola scritta, o al massimo via telefono o attraverso i programmi televisivi tradizionali.
Per fortuna, ci ha ricordato la dottoressa Roberta Bruzzone, criminologa nota per la sua partecipazione alle indagini su alcuni dei più noti fatti di cronaca accaduti nel nostro Paese negli ultimi anni, e per molte sue partecipazioni a trasmissioni televisive di approfondimento, le probabilità di un vero “caso Joe Carroll” sono assolutamente risibili. Gli omicidi seriali nella realtà sono tutt'altro che geni del male. Si tratta invece, nella totalità dei casi conosciuti, di soggetti mediocri, con problemi legati alla sfera dei rapporti interpersonali, vittime spesso di abusi durante l'infanzia, incapaci di intrattenere relazioni normali con persone dell'altro sesso. Banalmente, si tratta di sociopatici, veri e propri reietti della società, che un evento scatenante trasforma in un determinato momento della loro vita in seminatori di morte. Anche se avvenenti come Ted Bundy. Difficile, quindi, se non impossibile, che riescano ad escogitare piani diabolici come quello di Carroll nel telefilm. Altrettanto improbabile é che venga addirittura invitato a partecipare all'indagine un investigatore coinvolto sentimentalmente con la moglie del criminale. E' facile comprendere, d'altro canto, come la maggior parte dell'intreccio della serie ruoti nello scontro di Hardy contro Carroll, come moderni eroi omerici che si contendono a distanza la stessa donna. Nella vita reale, sarebbe bastato spedire Hardy e Claire a svernare su un'isola del Pacifico, delle tanti sulle quali la Marina USA mantiene basi ben presidiate, e l'intero ordito dei piani di Joe sarebbe crollato in brevissimo tempo. E addio The Following.
La celebre psicologa forense, che ha animato con la sua presenza l'evento stampa organizzato presso la sala di proiezione privata della Warner Bros a Roma cui abbiamo partecipato (qui caffé e cornetto ce l'hanno offerto! Un punto a favore della WB e ci rendiamo conto che aspettarci anche un cofanetto in BluRay della serie in omaggio sarebbe stato chiedere troppo...), ha però puntualizzato che non é impossibile, ed episodi storici come gli omicidi di Bel Air compiuti dalla “famiglia” Manson o la follia di David Khoresh a Waco lo testimoniano, che un leader carismatico riesca ad attrarre una piccola folla di disadattati, convincendoli a compiere comportamenti distruttivi o comunque antisociali. Il pericolo che, in questo contesto, i media e la rete costituiscano non troppo involontarie casse di risonanza, in grado di amplificare le notizie riguardanti i misfatti di un criminale e dei suoi seguaci, generando veri e propri antieroi malvagi capaci a loro volta di attrarre pericoloso proselitismo é vivo e presente nella società di oggi. Le notizie, nell'era dell'informazione globale, arrivano su di noi a pioggia anche senza bisogno di cercarle, con il pericolo di suggestionare, e innescare comportamenti emulativi, in soggetti psicolabili e predisposti a comportamenti delinquenziali.
L'illogicità di The Following, distante nella sua architettura diabolica dalla realtà, riesce quindi a toccare comunque un nervo scoperto di chiunque di noi. Quello che ci fa sentire vulnerabile nei confronti dell'insospettabile assassino (vedi la strage di Erba, il caso delle Bestie di satana, i delitti di Novi Ligure, quelli commessi da Pietro Maso e tanti altri) che si nasconde nella persona insospettabile, a noi vicina, in chi addirittura vive sotto il nostro stesso tetto. Immaginare addirittura una rete di simili individui che opera di concerto, seguendo un piano preciso, é geniale e sconvolgente allo stesso tempo.
Impossibile, ha sottolineato la Bruzzone, rispondendo alla domanda di un collega, pensare di realizzare una serie simile in Italia. Gli italiani, e gli europei in generale, sono in genere meno disponibili a farsi irretire e intruppare all'interno di sette o organizzazioni similari, molto più diffuse oltre Oceano. Più individualisti, a quanto sembra, gli abitanti dello stivale proprio non ci starebbero a farsi annullare la volontà e poi condurre come marionette alla distruzione (i “followers” muoiono come mosche, lasciando sul terreno caduti in ciascun episodio della serie) da un Joe Carroll qualunque. Faccio appena in tempo a tirare un respiro di sollievo e a smetterla di guardarmi intorno alla ricerca di segnali sospetti da parte di uno dei tanti giornalisti intervenuti, che arriva un'altra mazzata. Stavolta però me l'aspettavo un po' sentendo la domanda rivolta alla criminologa dal collega di un'altra testata online dedicata all'intrattenimento elettronico.
Alla domanda se i videogiochi ad alto contenuto di violenza possano innescare comportamenti sociopatici in individui predisposti, la Bruzzone non ha avuto dubbi. Certo che sì, ha spiegato, citando diversi casi noti di spree killer (a differenza dei seriali, che lasciano trascorrere periodi di “raffreddamento” della pulsione omicida tra un crimine e l'altro, sono quegli assassini che iniziano ad ammazzare gente a caso finché qualcuno non li ferma, come Anders Breivik in Norvegia, o i ragazzi della Columbine High School negli Stati Uniti) in cui era palese l'influenza negativa ricevuta proprio dall'immersione eccessiva in videogiochi iperviolenti, che aveva preceduto l'inizio della serie omicidiaria. Il collega ce l'ha messa tutta, per tentare di difendere la categoria, argomentando che esistono anche film e libri violenti e che allora anche loro... Niente da fare, ha ribattuto pronta lei. Si fruisce di un film o di un libro in modo passivo e per quanto ci si immerga nella trama, non si partecipa in modo attivo alla trama di esso come si fa con un gioco nel quale, immedesimandosi con un alter ego virtuale (sapete di cosa parlo) ci si cala completamente nella ripetizione ciclica di comportamenti distruttivi che, nel gioco stesso, non solo non sono viste come negative ma vengono retribuite con avanzamenti o punteggio.
Lo ha detto Roberta Bruzzone che, non so se l'avete presente, non é esattamente una tardona con gli occhiali cerchiati d'acciaio alla Miss Marple. C'é da augurarsi che, se a qualcuno venisse voglia d'imitare Joe Carroll, dalle nostre parti, raccolga soltanto gli occhi al cielo e lo sbuffare annoiato degli studenti nostrani, che di certi autori un polverosi e decotti ne hanno avuto più che abbastanza e, magari, preferiscono far volare la fantasia sulle pagine di J.R.R. Tolkien o George R.R. Martin.
Produttore esecutivo di razza, Kevin Williamson riesce benissimo nel suo scopo di attirare gli spettatori del pilota in una vera e propria imboscata narrativa. Si parte con un'infornata di stereotipi, di cui accenno nel box di commento e che quindi non torno a elencare, e lo show si snoda vivace ma senza particolari guizzi. Immaginare un killer che riesca ad affascinare le sue vittime (e non solo, ma questo lo scopriremo dopo) con interminabili lezioni su scrittori come Thoreau, Emerson e Edgar Allan Poe é poco credibile quanto scontato, nell'immaginario dei fan del thriller statunitense. Chi ha letto davvero qualcosa del padre del trascendentalismo americano (Emerson, che ha scritto saggi di una pesantezza devastante) e del suo contemporaneo e amico Thoreau, ispiratore della disobbedienza civile non violenta, nonché di Poe stesso che, ancorché riconosciuto e stimato padre del gotico, resta una penna spesso difficile da digerire senza un accompagnamento di Alka Seltzer (e guardare in seconda serata qualche vecchio film di Roger Corman con l'indimenticato Vincent Price non aiuta a capire la portata di quel che dico), sa perfettamente che oggi giorno é molto più facile irretire giovani allieve con una lettura pubblica dei romanzi della Kinsella, piuttosto che far leva su polverosi scrittori ottocenteschi. Stessa cosa si può dire per la figura del protagonista, malato, alcolizzato, sofferente, con un passato oscuro tutto da svelare e capire. Cliché, appunto, già visti e rivisti, assieme a tanti altri.
Poi però, verso il finale della puntata, proprio mentre, immaginiamo, i responsabili della Fox americana si apprestavano ad alzarsi dalle loro poltrone, consultando già l'agenda sul cellulare alla ricerca dell'appuntamento successivo, lo show ingrana bruscamente la seconda. E poi la terza, la quarta e la quinta, in un crescendo che fa girare la testa e immaginare una sessione di curve strette in drifting stile Fast & Furious (in senso narrativo, ovviamente). Da lì in avanti, per quindici puntate che qualche volta si fa fatica a guardare, dato il contenuto di violenza e l'intensità della tensione create, ma dalle quali allo stesso tempo non ci si riesce a staccare nemmeno volendo, si percorre assieme all'ex-agente Ryan Hardy, magistralmente interpretato da un Kevin Bacon che ha percorso parecchie miglia di carriera dai tempi di Footloose, una discesa agli inferi vertiginosa che prosegue nella seconda serie (quattro puntate già trasmesse in USA e una sola in Italia, mentre sto scrivendo), senza mai segnare una battuta d'arresto.
Non mancano, di quando in quando, imperfezioni della sceneggiatura, incongruenze nel comportamento dei protagonisti, episodi al limite dell'illogico. Si tratta però di peccati veniali che fanno sentire solo per pochi istanti un assottigliamento dello spessore qualitativo generale, pronto a ritornare al suo apice alla successiva, imminente, svolta della storia. L'idea dirompente di una mente criminale geniale che riesce a irretire e coinvolgere in un piano diabolico di amplissimo respiro una rete di decine di seguaci in giro per l'America, fondata sulle paure che tutti noi nutriamo nei confronti della società dell'informazione e comunicazione globale, in grado di mettere a disposizione di chiunque platee e pulpiti virtuali senza limiti né censure, inattaccabili e incontrollabili, riesce a catturare e sconvolgere allo stesso tempo anche chi ha ormai lo stomaco inspessito da decenni di autopsie, referti anatomopatologici, analisi delle macchie ematiche e ispezioni sulle scene del crimine televisive.
-Quello che sono diventato, lo devo a te - dice Roderick a Joe Carroll, quando finalmente i due riescono a incontrarsi faccia a faccia. Quello che funziona, in The Following, é proprio la scoperta del piano, l'inserimento nella trama principale di “followers” sempre diversi, ma accomunati dalla medesima sociopatia omicida e dalla stessa fragilità di carattere, miscela micidiale che li ha consegnati indifesi ma allo stesso tempo folla invisibile e tentacolare di pericolosi omicidi seriali, alla volontà e alla capacità d'influenzare di Carroll.
-Non sarete voi a trovare noi - minaccia uno dei killer rivolto a Ryan Hardy- Saremo noi a trovare voi. Noi siamo i vostri padri, le vostre madri, i vostri fratelli e sorelle, i vostri amici... -. Lo scenario immaginato é agghiacciante. Non un solo omicida, geniale quanto si vuole ma pur sempre isolato, braccato dalla polizia, preda fiera ma predestinata ad essere battuta, alla fine. Ma una vera e propria galassia di assassini, uno diverso dall'altro, perfettamente mescolati con la società civile e per questo micidiali. Pronti a dare la vita, oltre tutto, per il loro leader, al punto che abbondano, nello snodarsi della trama, seguaci che scelgono il suicidio piuttosto che venire meno all'impegno verso Joe. E in grado di garantire, quando il piano sembra finalmente destinato a fallire e il capo pare cadere nelle mani dei suoi inseguitori, la continuità della trama, in una sequenza di colpi di scena che, facendo parte del menu ricchissimo presentato dalla seconda serie appena iniziata, eviterò di svelare anche solo in parte.
Protagonista assoluta, nell'architettura del progetto criminoso di Carroll, intepretato da un James Purefoy decisamente più a suo agio nei panni dell'untuoso, languido, perfido ex-professore di letteratura massacratore di studentesse che in quelli grifagni di Solomon Kane o in quelli marziali di Marco Antonio della bellissima serie Roma della HBO, é la rete. Senza Internet, Joe non sarebbe riuscito a instituire la sua rete criminale e a ordire la complessissima ragnatela del suo piano.
Una delle sfide del mondo della comunicazione globale, dunque, pare essere proprio quella della prevenzione nei confronti del pericolo della nascita di simili sette omicide, impensabili nel mondo passato quando le informazioni viaggiavano prevalentemente attraverso la parola scritta, o al massimo via telefono o attraverso i programmi televisivi tradizionali.
Per fortuna, ci ha ricordato la dottoressa Roberta Bruzzone, criminologa nota per la sua partecipazione alle indagini su alcuni dei più noti fatti di cronaca accaduti nel nostro Paese negli ultimi anni, e per molte sue partecipazioni a trasmissioni televisive di approfondimento, le probabilità di un vero “caso Joe Carroll” sono assolutamente risibili. Gli omicidi seriali nella realtà sono tutt'altro che geni del male. Si tratta invece, nella totalità dei casi conosciuti, di soggetti mediocri, con problemi legati alla sfera dei rapporti interpersonali, vittime spesso di abusi durante l'infanzia, incapaci di intrattenere relazioni normali con persone dell'altro sesso. Banalmente, si tratta di sociopatici, veri e propri reietti della società, che un evento scatenante trasforma in un determinato momento della loro vita in seminatori di morte. Anche se avvenenti come Ted Bundy. Difficile, quindi, se non impossibile, che riescano ad escogitare piani diabolici come quello di Carroll nel telefilm. Altrettanto improbabile é che venga addirittura invitato a partecipare all'indagine un investigatore coinvolto sentimentalmente con la moglie del criminale. E' facile comprendere, d'altro canto, come la maggior parte dell'intreccio della serie ruoti nello scontro di Hardy contro Carroll, come moderni eroi omerici che si contendono a distanza la stessa donna. Nella vita reale, sarebbe bastato spedire Hardy e Claire a svernare su un'isola del Pacifico, delle tanti sulle quali la Marina USA mantiene basi ben presidiate, e l'intero ordito dei piani di Joe sarebbe crollato in brevissimo tempo. E addio The Following.
La celebre psicologa forense, che ha animato con la sua presenza l'evento stampa organizzato presso la sala di proiezione privata della Warner Bros a Roma cui abbiamo partecipato (qui caffé e cornetto ce l'hanno offerto! Un punto a favore della WB e ci rendiamo conto che aspettarci anche un cofanetto in BluRay della serie in omaggio sarebbe stato chiedere troppo...), ha però puntualizzato che non é impossibile, ed episodi storici come gli omicidi di Bel Air compiuti dalla “famiglia” Manson o la follia di David Khoresh a Waco lo testimoniano, che un leader carismatico riesca ad attrarre una piccola folla di disadattati, convincendoli a compiere comportamenti distruttivi o comunque antisociali. Il pericolo che, in questo contesto, i media e la rete costituiscano non troppo involontarie casse di risonanza, in grado di amplificare le notizie riguardanti i misfatti di un criminale e dei suoi seguaci, generando veri e propri antieroi malvagi capaci a loro volta di attrarre pericoloso proselitismo é vivo e presente nella società di oggi. Le notizie, nell'era dell'informazione globale, arrivano su di noi a pioggia anche senza bisogno di cercarle, con il pericolo di suggestionare, e innescare comportamenti emulativi, in soggetti psicolabili e predisposti a comportamenti delinquenziali.
L'illogicità di The Following, distante nella sua architettura diabolica dalla realtà, riesce quindi a toccare comunque un nervo scoperto di chiunque di noi. Quello che ci fa sentire vulnerabile nei confronti dell'insospettabile assassino (vedi la strage di Erba, il caso delle Bestie di satana, i delitti di Novi Ligure, quelli commessi da Pietro Maso e tanti altri) che si nasconde nella persona insospettabile, a noi vicina, in chi addirittura vive sotto il nostro stesso tetto. Immaginare addirittura una rete di simili individui che opera di concerto, seguendo un piano preciso, é geniale e sconvolgente allo stesso tempo.
Impossibile, ha sottolineato la Bruzzone, rispondendo alla domanda di un collega, pensare di realizzare una serie simile in Italia. Gli italiani, e gli europei in generale, sono in genere meno disponibili a farsi irretire e intruppare all'interno di sette o organizzazioni similari, molto più diffuse oltre Oceano. Più individualisti, a quanto sembra, gli abitanti dello stivale proprio non ci starebbero a farsi annullare la volontà e poi condurre come marionette alla distruzione (i “followers” muoiono come mosche, lasciando sul terreno caduti in ciascun episodio della serie) da un Joe Carroll qualunque. Faccio appena in tempo a tirare un respiro di sollievo e a smetterla di guardarmi intorno alla ricerca di segnali sospetti da parte di uno dei tanti giornalisti intervenuti, che arriva un'altra mazzata. Stavolta però me l'aspettavo un po' sentendo la domanda rivolta alla criminologa dal collega di un'altra testata online dedicata all'intrattenimento elettronico.
Alla domanda se i videogiochi ad alto contenuto di violenza possano innescare comportamenti sociopatici in individui predisposti, la Bruzzone non ha avuto dubbi. Certo che sì, ha spiegato, citando diversi casi noti di spree killer (a differenza dei seriali, che lasciano trascorrere periodi di “raffreddamento” della pulsione omicida tra un crimine e l'altro, sono quegli assassini che iniziano ad ammazzare gente a caso finché qualcuno non li ferma, come Anders Breivik in Norvegia, o i ragazzi della Columbine High School negli Stati Uniti) in cui era palese l'influenza negativa ricevuta proprio dall'immersione eccessiva in videogiochi iperviolenti, che aveva preceduto l'inizio della serie omicidiaria. Il collega ce l'ha messa tutta, per tentare di difendere la categoria, argomentando che esistono anche film e libri violenti e che allora anche loro... Niente da fare, ha ribattuto pronta lei. Si fruisce di un film o di un libro in modo passivo e per quanto ci si immerga nella trama, non si partecipa in modo attivo alla trama di esso come si fa con un gioco nel quale, immedesimandosi con un alter ego virtuale (sapete di cosa parlo) ci si cala completamente nella ripetizione ciclica di comportamenti distruttivi che, nel gioco stesso, non solo non sono viste come negative ma vengono retribuite con avanzamenti o punteggio.
Lo ha detto Roberta Bruzzone che, non so se l'avete presente, non é esattamente una tardona con gli occhiali cerchiati d'acciaio alla Miss Marple. C'é da augurarsi che, se a qualcuno venisse voglia d'imitare Joe Carroll, dalle nostre parti, raccolga soltanto gli occhi al cielo e lo sbuffare annoiato degli studenti nostrani, che di certi autori un polverosi e decotti ne hanno avuto più che abbastanza e, magari, preferiscono far volare la fantasia sulle pagine di J.R.R. Tolkien o George R.R. Martin.